Libia, anche l’Onu scettica sulle possibilità del dialogo. E valuta un blocco navale, di PAOLO MASTROLILLI

Il retroscena delle trattative al Palazzo di Vetro: si teme il colpo di forza. Ipotesi Caschi Blu richiede sei mesi, verso una coalizione di volenterosi?

 

 

PAOLO MASTROLILLI, INVIATO A NEW YORK

Ci sono anche il blocco marittimo, le sanzioni individuali e il congelamento dei ricavi del settore petrolifero, tra i provvedimenti che la comunità internazionale sta considerando per spingere le fazioni libiche a creare un governo unitario, capace di stabilizzare il Paese e favorire la lotta al terrorismo dell’Isis.

 

L’alternativa pericolosa, che sta guadagnando consensi anche negli ambienti americani, è quella di consentire all’escalation militare di sbloccare la situazione. Nei giorni scorsi l’Onu è stata il crocevia delle iniziative sull’emergenza in Libia, con il dibattito sulla risoluzione chiesta dall’Egitto per autorizzare un intervento, gli incontri dell’ambasciatore italiano Buccino con tutti i protagonisti, e la pubblicazione del rapporto del segretario generale Ban Ki-moon.

 

Da tutti questi contatti, che siamo in grado di ricostruire nei dettagli, è emerso un quadro anche più preoccupante di quello noto, con proposte in certi casi radicali per affrontarlo.

 

La mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon resta la strada preferita per creare un governo di unità nazionale, che metta insieme l’esecutivo laico di Tobruk con quello islamico in controllo di Tripoli e Misurata, per poi fermare l’Isis con l’aiuto internazionale. I tempi però sono molto stretti: un mese, infatti, è lo spazio contemplato per una proroga della missione Unsmil, che scade il 13 marzo. La situazione, poi, è complicata dalle divisioni fra i protagonisti. Egitto, Giordania e Russia sono percepiti come alleati di Tobruk, dove la nomina del generale Khalifa Haftar come capo delle forze armate è vista come un elemento capace di coagulare i terroristi sul fronte opposto. Usa, Gran Bretagna e Turchia sono percepiti come più vicini a Tripoli, mentre l’Italia è nel mezzo: fino a quando aveva l’ambasciata aperta era accusata di flirtare con gli islamici, ma adesso sta recuperando posizioni con Tobruk.

 

Le posizioni occidentali

Durante gli incontri all’Onu l’ambasciatrice americana Samantha Power ha sostenuto la mediazione di Leon e frenato le iniziative unilaterali, come quella egiziana. Nello stesso tempo, però, ha sottolineato che la mancanza di una strategia internazionale forte per contrastare l’Isis subito, e le difficoltà incontrate dall’inviato del segretario generale, rafforzano la posizione di chi considera inevitabile un’escalation militare per sbloccare lo stallo. Detto da lei, significa che simili spinte esistono anche nell’amministrazione Usa, e per il governo sta diventando difficile resistere, nonostante tutti gli analisti ben informati sulle forze in campo ritengono che né Tripoli, né Tobruk, abbiano al momento la capacità di vincere il conflitto con i rivali, stabilizzare il paese e stroncare le mire del Califfato.

 

Gli inglesi sostengono Leon, ma pensano che il suo mandato debba avere limiti temporali, e questa posizione è probabilmente frutto delle pressioni dell’Egitto. La Francia invece chiede di preparare il sostegno internazionale al governo unitario, e conviene con l’Italia che la ricerca dei leader per guidarlo è stata carente. Puntare su personalità note all’estero come Ali Zidan, ma prive di seguito reale nel Paese, è stato un errore, mentre la legge sull’isolamento politico impedisce di scegliere elementi autorevoli come Mohammed al Magariaf, ex presidente del Congresso.

 

La Spagna scettica su Leon

L’ambasciatore russo Churkin appoggia Leon, ma rimprovera agli altri Paesi di non sostenere abbastanza Tobruk, che resta ai suoi occhi l’unico governo legittimo. Quindi vorrebbe togliere l’embargo alla vendita di armi, come suggerisce anche l’Egitto, pur ammettendo che poi sarebbero necessari stretti controlli per evitare che questi strumenti bellici finiscano poi nelle mani sbagliate.

 

La dimostrazione di quanto sia difficile la situazione sta nel fatto che proprio l’ambasciatore spagnolo all’Onu, Oyarzun Marchesi, è tra i più scettici sulla possibilità che il suo connazionale Leon riesca a far nascere il governo di unità nazionale. Nei colloqui dei giorni scorsi, il rappresentate di Madrid ha consigliato esplicitamente ai colleghi di cominciare a preparare il «piano B», che al momento non esiste. Il suo pessimismo non si basa tanto sulle capacità del mediatore, quanto sulle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza e del mondo arabo. Marchesi pensa che sia necessario prepararsi a soluzioni esterne al Consiglio, dove Paesi come Italia, Spagna e Francia dovrebbero svolgere il ruolo guida, anche perché gli americani sono frenati dalla politica interna. Tutti sanno che Hillary Clinton sta per candidarsi alla Casa Bianca, e visto il problema che ebbe a Bengasi, difficilmente sarà favorevole a fare la campagna presidenziale con le truppe Usa coinvolte in un qualsiasi intervento in Libia. Tra i provvedimenti suggeriti da Marchesi, c’è anche il blocco degli asset della Banca centrale libica, già considerato anche dagli inglesi. In sostanza vorrebbe dire chiudere i rubinetti del denaro a tutte le parti, perché finora la banca ha distribuito le sue risorse a tutte le fazioni. Il problema è che un provvedimento di questo tipo richiederebbe una domanda del governo locale, oppure una risoluzione Onu basata sul capitolo VII della Carta. Se passasse, poi, ci sarebbe sempre il rischio che le potenze regionali intervengano a fornire loro i finanziamenti, alle varie fazioni con cui si alleano.

 

Le divisioni fra gli arabi

Le potenze regionali dovrebbero guidare la lotta al Califfato, e quindi favorire la stabilizzazione della Libia, ma sono profondamente divise. Il Paese è ancora rappresentato all’Onu dall’ambasciatore Dabbashi, che risponde a Tobruk e chiede di togliere l’embargo alla vendita di armi e sostenere l’offensiva del governo di Abdullah Al Thani. Appoggia questa posizione l’Egitto, che pensa di avere il diritto di intervenire perché la crisi libica rappresenta una minaccia alla sua sicurezza nazionale, appena oltre il confine. Turchia e Qatar invece sostengono per ragioni ideologiche la coalizione islamica di Tripoli, con tutti i sospetti che il coinvolgimento del Qatar nel finanziamento dell’Isis in funzione anti Assad porta con sé.

 

Le ipotesi sul tavolo

A fronte di tutti questi problemi, il segretariato dell’Onu sta già considerando da tempo le alternative alla mediazione di Leon. Tanto per cominciare, se il negoziato funzionasse il governo di unità nazionale avrebbe bisogno di aiuto immediato per sopravvivere. Hervé Ladsous, il francese che guida il Dipartimento delle operazioni di pace, ritiene che l’invio dei caschi blu non sarebbe praticabile, perché se anche il Consiglio di Sicurezza lo approvasse, richiederebbe almeno sei mesi di tempo per essere realizzato. L’alternativa più realistica quindi sarebbe una «coalizione di volenterosi», legittimata da una risoluzione dell’Onu, che potrebbe schierare in fretta i suoi uomini. L’Italia dovrebbe avere un ruolo guida, se questo progetto si concretizzasse, anche se il Palazzo di Vetro in genere evita di dare posizioni preminenti agli ex Paesi coloniali, e in questo caso sarebbe fondamentale la leadership araba e islamica per evitare che la propaganda terroristica presenti l’operazione come un’«occupazione crociata». Il monitoraggio dell’eventuale accordo fra le parti, poi, dovrebbe essere fatto insieme dalle parti stesse, per non urtare le sensibilità locali.

 

Se fallisce l’Onu

Se la mediazione di Leon fallisse, però, l’unica alternativa all’escalation militare sarebbero nuove iniziative per aumentare la pressione sulle fazioni e obbligarle a trovare un accordo politico. Tra le ipotesi considerate, per ora solo a livello di riflessione, c’è anche quella del blocco marittimo, che si baserebbe sul regime sanzionatorio già creato dalla risoluzione 2146 per impedire per esempio il contrabbando del petrolio. Il blocco raggiungerebbe il doppio obiettivo di mettere pressione economica su tutte le parti, e consentire il controllo delle acque davanti all’Italia per prevenire eventuali attacchi. Al momento è solo un’ipotesi, ma il Direttore del dossier Libia al Dipartimento Affari Politici, Christopher Coleman, la tiene sul tavolo.

 

Congelamento dei beni

Un’altra possibilità è il congelamento dei proventi petroliferi, che finora sono stati redistribuiti fra tutte le milizie. Il problema qui è che queste risorse, per quanto già ridotte, servono anche a far sopravvivere la popolazione civile. Eliminarle provocherebbe un forte risentimento verso la comunità internazionale, che andrebbe mitigato con qualche meccanismo compensativo, capace insieme di garantire il sostentamento dei civili, e impedire l’arrivo di altri finanziamenti per le milizie dai paesi della regione. Poi c’è anche la possibilità di imporre sanzioni individuali contro i responsabili dei disordini, ma bisognerebbe distribuirle in maniera equa fra Tobruk e Tripoli.

 

L’intensità del dibattito in corso, e la radicalità di alcune soluzioni proposte, dimostra quanto sia difficile la situazione. Senza un accordo in tempi brevi, però, l’escalation militare potrebbe diventare l’unica alternativa, aprendo ai terroristi spazi molto pericolosi.

LA STAMPA 04/03/2015

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