I vescovi sardi al Concilio Vaticano II, un libro per molte riflessioni (santamente) divergenti, fra critica e partecipazione, di Gianfranco Murtas

Il  venerdì 6 marzo alle ore 18, presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna (via Enrico Sanjust 13, Cagliari), verrà presentato il volume “I vescovi sardi al Concilio Vaticano II. Protagonisti. Vol. II”, di Tonino Cabizzosu.

Nell’articolo che segue, Gianfranco Murtas – autore anni addietro del libro “Papa Roncalli e la Sardegna”, con premessa del’arcivescovo (oggi cardinale) Loris Francesco Capovilla e introduzione dello stesso don Cabizzosu, e di una lunga serie di profili biografici dell’episcopato sardo del Novecento (in ultimo il libro-intervista con monsignor Pier Giuliano Tiddia “Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita” – presenta il lavoro, aggiungendo alcune sue considerazioni sullo stato della Chiesa sarda a cinquant’anni dalla conclusione delle assise che riunirono a San Pietro, insieme con altri tremila presuli di tutto il mondo, anche una trentina di vescovi sardi o che in Sardegna avrebbero avuto presto incarichi di guida delle comunità diocesane.

In un giornale regionale come L’Unione oppure La Nuova meriterebbero una pagina, e in altri tempi l’avrebbero avuta.  Ad ogni loro nuova uscita, i lavori del professor Tonino Cabizzosu, ordinario di storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica della Sardegna e vicario episcopale per la Cultura della diocesi Ozieri, meriterebbero sempre una pagina speciale sui giornali di larga diffusione che non intendessero rinunciare comunque mai alla qualità né a dare spazio agli approfondimenti  del naturale continuum, così come alle anticipazioni di nuove ricerche sui larghi fronti del vissuto della società religiosa sarda. Lo meriterebbero, direi lo esigerebbero questo spazio, sulla grande stampa quotidiana locale (purtroppo ora in spegnimento progressivo), a motivo dell’interesse generale dei soggetti scelti, volta a volta, da questo autore illustre e generoso: scelti per essere contestualizzati, analizzati, compresi, restituiti  in chiave partecipativa ai lettori quidam, non soltanto al pubblico dei dotti od agli specialisti. Combinando il rigore dello esplorazione alla efficacia narrativa. Appunto secondo una matura propensione autenticamente democratica, di condivisione delle conoscenze, delle linee interpretative, eminentemente delle riflessioni, direi anche (data la materia: storia della Chiesa), sui depositi valoriali ed esperienziali che le generazioni  nuove hanno ricevuto dalle antiche, chiamate esse (le nuove)ad onorarne fatica e virtù. Sì, nient’altro che come un prete colto ed evangelico dovrebbe sentire e fare ogni giorno della sua vita – spartire il pane solidale della cultura, come quello della prossimità esistenziale –, ma piace ogni volta verificarlo come cosa compiuta e compiuta bene. Ancora nella logica magna della storia sempre contemporanea spiegata da Benedetto Croce con quella icastica definizione affidata alle celebri pagine della sua Teoria e storia della storiografia: «Solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato: il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde ad un interesse passato, ma presente»…

E quanto sia di attualità il tema conciliare, alla vigilia adesso del cinquantenario dello svolgimento  della sua quarta sessione di lavori e quindi della solenne chiusura sotto il manto patriarcale e profetico di papa Paolo Vi, sembra di tutta evidenza  a chi segua l’empatico mostrarsi quotidiano del nuovo vescovo di Roma e misuri, ora con spirito partecipativo e comunionale ora con spirito disincantato e laico, distanze e prossimità dai protagonisti di quella stagione storica e provvidenziale. Occorrono sensibilità e lucida capacità di leggere i “segni dei tempi” – il che potrebbe essere arte anche degli “esterni” –  per collegare questi (i tempi) presenti a quelli ormai quasi remoti: per inquadrare in un processo di continuità e sviluppo, con le accelerazioni, le pause e/o le rettifiche volta a volta ritenute necessarie, il ministero di un argentino figlio di emigranti, dono del mondo nuovo a quello sclerotico dell’occidente opulento, quarto successore del pontefice della Ecclesiam Suam e della Populorum progressio, del pontefice che raccolse l’illuminazione giovannea e portò a compimento la traversata storica di quelle discussioni che aprirono un’epoca, insaporendo la società di testimonianza religiosa e la religione di impellenza e complessità sociale.

I precedenti studi conciliari. Ho tenuto fra le mani l’ultima fatica editoriale di don Cabizzosu con la stessa emozione che provai allorché mi accinsi a studiare, per un mio lavoro su Giovanni XXIII e la Sardegna (1901-1963), quel volume (rosso di copertina) a firma di Ottorino Pietro Alberti I vescovi sardi al Concilio Vaticano I (Editrice Libreria della Pont. Università Lateranense, 1963, anticipato per la parte relativa al carmelitano monsignor Demartis – il nemico corrisposto di Asproni! – sulle pagine di un numero monografico de L’Ortobene così come su quelle autorevoli de L’Osservatore Romano): una fatica sulla quale tanto interrogai, anche per la facile consuetudine conquistata dopo tanti triboli, l’autore. Con il senso del prezioso, pesando e misurando – per quanto potevo esserne capace, e con rispetto assoluto delle ragioni e delle modalità – l’approccio personale dello studioso, ritrovando in quella trattazione la singolarità della sua cifra umana, intellettuale, spirituale ed ecclesiale. Ne dirò, e ne varrà la pena, ad onore sempre dell’indimenticato arcivescovo. Autore – Alberti – anche, alla vigilia della prima sessione di lavori con presidenza di papa Roncalli, di diversi articoli usciti sulla stampa cattolica isolana illustrativi di storia e contenuti giuridici della millenaria sequenza dei Concili. (Ricorderei al riguardo almeno quelli apparsi, fra gennaio e luglio 1962, ancora sul nuorese L’Ortobene , che pure accolse alcune sue corrispondenze giusto all’avvio dei lavori –“Dalla Basilica Vaticana il Verbo al Mondo”, 25 ottobre e “I lavori del Concilio”, 25 novembre). Autore altresì, in costanza di sedute nella grande basilica di San Pietro, di quell’altro brillante e necessario saggio La Sardegna nella storia dei Concili (Libreria Editrice della Pont. Università Lateranense, 1964), che ripartiva da Arles (314) per arrivare a Trento (1545-1563).

Ma qui ecco la fatica – doppia fatica – di don Cabizzosu.  Due volumi con un titolo comune – I vescovi sardi al Concilio Vaticano II – e il distinto riferimento, caricando di severità metodologica lo scavo e però insieme mediando con un tratto cronachistico l’opera, alle Fonti (nel tomo uscito nel marzo 2013) ed ai Protagonisti (in questo recentissimo del dicembre 2014). Sobrio editing curato dalla cagliaritana arkadia in esordio della collana Studi e fonti per la storia della Chiesa sarda (quasi in prosecuzione di quanto effettuato fino a pochi anni fa dalla sfortunata Zonza Editori). Della Pontificia Facoltà Teologica è invece il progetto culturale che ha promosso l’iniziativa editoriale con lo scopo di «testimoniare l’azione e il ruolo svolto dalla Chiesa Sarda» durante l’evento conciliare e «colmare una lacuna sull’argomento, giacché non si registrano finora studi specifici sul settore».

Ho adesso fra le mani entrambi i volumi che don Cabizzosu ha firmato in tempi distinti, in cui circostanze diverse hanno determinato il suo ritorno alla diocesi d’origine (a rischio oggi di soppressione) – quella di Ozieri, riunione e riviviscenza delle antiche Chiese di Castro e di Bisarcio –, ed imposto un aggiornamento nel risvolto della quarta di copertina: non più direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari (che perdita improvvida! e che insipienza a favorirla nella maggiore archidiocesi sarda!), ma parroco della Basilica Nostra Signora del Regno in Ardara (scrigno di magnifiche cose d’arte della Sardegna giudicale di mille anni fa).

Condiocesani per il pensare (e dire o scrivere) libero. Diocesi minima, quella di Ozieri, in quanto a territorio, frazionato fra Logudoro, Goceano e Monte Acuto, e più ancora in quanto a popolazione, a numero di parrocchie e di preti secolari e/o religiosi, ma pure ricca di storia e di personalità eccellenti tanto nel remoto quanto nel presente (si pensi soltanto, dopo la scomparsa del cardinale Pompedda,  a don Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato in Vaticano). Una diocesi, concludo, che in don Cabizzosu ha avuto il suo storico-biografo capace di rivelarne le ricchezze umane e spirituali e, con piena libertà, anche i limiti, le ingessature, i ritardi. Potrei citare, dell’inevitabile chiaroscuro, dieci titoli riferiti ora alla stampa vescovile ora alle opere sociali ed al clero, alle stesse monumentalità che sono linguaggio comunicativo fra le epoche diverse, al contesto fisico ed a quello umano e civile e sociale, attraversato da vicende e vissuti diversi e perfino contrastanti, metti anche sul piano politico, tanto più nella stagione risorgimentale (e garibaldina) e del primo Novecento, e ancora dell’immediato secondo dopoguerra.

Ripenserei al tanto presente in Chiesa e Società nella Sardegna Centro-Settentrionale, 1850-1900, o nei più mirati saggi inseriti fra le periodiche Ricerche socio-religiose sulla Chiesa Sarda tra ‘800 e ‘900 (fra i molti altri, nella terza uscita, sono i profili dei vescovi Serafino Corrias e Filippo Bacciu). Oppure nelle gallerie biografiche di Pastori e intellettuali nella Chiesa sarda del Novecento (da don Giovanni Antonio Tilocca a don Giovanni Ortu, da don Pietro Casu a don Damiano FIlia – che nomi! – , a don Francesco Brundu, ecc., che per nascita o formazione o ministero hanno lasciato traccia indelebile nella vita intima e sociale di persone e comunità in diocesi) o del successivo Donna, Chiesa e società sarda nel Novecento (dove s’alza ammirevole, dal 1895, il servizio delle Piccole Suore di San Filippo Neri), che costituisce in certa misura la ripresa ed il completamento di quella raccolta di contributi curata nel 2000, insieme con Francesco Atzeni, dal titolo Congregazioni Religiose e Istituti Secolari sorti in Sardegna negli ultimi cento anni. Naturalmente il pensiero va, ancora più particolarmente, agli atti dei convegni di studi in preparazione al bicentenario della dioecesis othierensis Duecento anni al servizio del territorio, 1803-2003 e, specificamente, alla Rievocazione storica dei cinquant’anni di vita di “Voce del Logudoro”.  Tutti appuntamenti, questi e altri cento, secondo la lezione del gesuita padre Giacomo Martina (1924-2012) e degli altri Maestri sulla scia illuminata di don Giuseppe De Luca (1898-1962), amatissimo da Paolo VI, con l’umanità complessa dei residenti territoriali ed il quadro sociale ed economico delle loro micro comunità di paese o circondario; appuntamenti anche, ovviamente, con quanti sono stati via via chiamati a rendere il servizio, o l’accompagnamento, spirituale e religioso alle popolazioni nella successione dei tempi. Nel novero non potrei dimenticare, perché specialmente amato dal suo biografo in un ideale affiancamento, coraggioso non meno che faticoso, don Gesuino Mulas, del quale Cabizzosu ha pubblicato ampi stralci del cospicuo (per fogli e soprattutto per pregnanza meditativa) diario tenuto per diciassette lunghi anni (fino al 1974): Diario Mulas. Un sacerdote sardo tra crisi e rinnovamento conciliare è stata un’opera rischiosa ed arrischiata, discussa e perfino accusata per il tanto che aveva di quasi “corrente”, non ancora interamente sedimentato o non de-emozionato, ma che mi sono sentito di difendere non soltanto nella sua intenzione ma anche per le opportunità riflessive e perfino autocritiche offerte ad una generazione di uomini di Chiesa – della Chiesa sarda – che i tribolati passaggi di vita del prete di Benetutti (1908-1978), per lunghi anni autore dei pregevoli commenti del Vangelo domenicale sul Quotidiano Sardo, ha anch’essa conosciuto e subito.  (E il mio primo incontro con don Cabizzosu avvenne proprio in biblioteca, lui impegnato nel censimento degli interventi di don Mulas – secondo anche l’input ricevuto da don Paolo Carta –, io nella ricostruzione di un regesto della stessa testata in vista di una storia del giornale fondato nel 1947 dall’arcivescovo Giuseppe Cogoni ed a lungo diretto, a Cagliari, da don Giuseppe Lepori).

Tonino Cabizzosu ha donato alla Chiesa (universale e locale) ed al campo vasto e variegato della ricerca storica come a quello dell’impegno religioso, e ai complessi ambiti sia ecclesiali che accademici, ma più in generale a quel mondo trasversale dei cultori della storia che interpretano gli stretti nessi fra civile e spirituale collocandoli come materia di primo studio, una produzione densa anche nelle curatele: si pensi  ai collettanei in onore del Cardinale Mario Francesco Pompedda oppure in onore di Monsignor Ottorino Pietro Alberti. Si pensi anche – lo valuto nella bellezza del documentarista – alle tracce autobiografiche che felicemente ha voluto renderci, nel 25.mo della sua ordinazione sacerdotale avvenuta per le mani dell’indimenticato don Paolo Carta, a Illorai, nel 1975: Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo. Che vale come modello, come specchio di umanità e rivelatore del sentire profondo di un testimone di Domineddio e dei valori alti, liberanti, della sua religione.

Ora dunque abbiamo, dopo cinquanta o sessanta altri (dal 1986), questi due ultimi volumi offertici non da Cabizzosu soltanto storico ma da Cabizzosu prete formatosi, fra liceo e teologia, in sequenza a Cuglieri ed a Cagliari – e prima ancora dai salesiani di Sant’Eusebio in Lanusei e da quelli di Mandrione Tuscolano a Roma (medie e ginnasio superiore) – proprio negli anni del Concilio e dell’immediato postConcilio. Per dire qui della partecipazione che anche allo storico più rigoroso è concessa di filtrare con le sue esperienze di vita la materia di studio. D’altra parte è da dire che l’evento conciliare, il suo soffio di apertura dialogica ed ecumenica, di ripresa o ripartenza dalle fonti bibliche senza ovviamente negare rango alla tradizione – pilastro che fa della Chiesa cattolica altro da quelle riformate – e la nuova liturgia con tutto quanto ne costituiva premessa e postulato, a cominciare dalla dimensione comunitaria in riequilibrio e correzione (parziale e purtroppo precaria) di ingannevolezze e autoreferenzialità clericali e gerarchiche – l’evento conciliare, dicevo, era stato ed era rimasto (anche nella fase degli arretramenti) sfondo formativo di una intera generazione di chierici chiamata, nei seminari, al cimento ministeriale. Per questo credo che mai come in quest’opera doppia dedicata alle Fonti ed agli uomini del Concilio giovanneo e paolino Cabizzosu prete abbia scritto a quattro mani con il Cabizzosu storico, o, se si vuole, lo storico con il prete. Senza smarrimenti o sovrapposizioni indebite, ma semmai con il possesso di chiavi di lettura ulteriori e più adatte e pertinenti. Lo certificano le intense pagine introduttive al volume sui Protagonisti firmate dall’arcivescovo Angelo Becciu – condiocesano (oltreché amico) di don Cabizzosu – che non lamentano letture avare o critiche quasi per pregiudizio o partito preso – categoria introvabile nelle pagine invero sempre serene dell’autore –, ma accolgono e rispettano, trovandone adeguate e documentate le motivazioni, le letture problematiche circa la marginalità del contributo offerto dall’episcopato isolano (e da quello nazionale italiano in generale) ai lavori delle quattro sessioni: al più per la «formazione teologica» caratterizzata da una visione apologetica «legata prevalentemente agli orientamenti della Pontificia Università Lateranense, chiusa alle istanze più innovative provenienti da oltre le Alpi, fortemente antimodernista […], conservatrice e, per gli aspetti più politici e sociali, anticomunista».

La Cuglieri gesuitica degli anni ’30 e ’40 – quelli della formazione della maggioranza, forse, de i vescovi sardi in missione conciliare a San Pietro, e di cui Cabizzosu ha scritto in un eccellente saggio comparso in Theologica & Historica del 2007 – non differiva granché dagli indirizzi generali della Lateranense, come anche gli Studia et vota inviati dalla Facoltà, nella fase ante preparatoria del Concilio, dimostrano. Lo ricorda peraltro, acutamente, l’arcivescovo Becciu, che l’esperienza di Cuglieri, in tempi che erano ormai più quelli di Cabizzosu che non quelli dei vecchi vescovi, ha anch’egli compiuto: «il corpo docente proponeva, fra l’altro, una congrua vigilanza su pubblicazioni, teorie ed opinioni neomoderniste, una condanna chiara del laicismo e dell’indifferentismo teoretico, così come del marxismo, il ripristino dei visitatori apostolici nelle diocesi […] e la salvaguardia delle indulgenze plenarie». Questa l’impostazione formativa del seminario regionale sardo – istituzione eccellente nella intuizione originaria di Pio XI –, non dissimile da quella di altri centri di formazione accademica della penisola.

Detto questo e fatta la classificazione per attività precedenti alla promozione episcopale, la conclusione che don Becciu raccoglie da Cabizzosu è la seguente: «l’indirizzo dei Vescovi isolani si caratterizzava per una visione piuttosto parziale dei problemi e per la mancanza di un’analisi scientifica e di uno studio approfondito». Anche questo risultava evidente dai Consilia et vota presentati, a richiesta pure essi, dai singoli presuli alla vigilia del Concilio.

Portatori di «un’idea abbastanza generica del Concilio», i vescovi sardi attendevano dall’assise ecumenica la piena conferma della dottrina tradizionale, la condanna degli errori, il ritorno alla civiltà cristiana in lotta permanente con la secolarizzazione dei costumi assecondata da quella della legislazione e perfino dalla evoluzione del quadro politico nazionale, ora aperto, per volontà degli stessi esponenti democristiani più avanzati, alla sinistra socialista. «Si auspicava anche la proclamazione di nuovi dogmi, come la regalità di Cristo e il titolo di corredentrice per la Vergine Maria».

Le luci di Bindua e Sa Zeppara. In verità non erano del tutto assenti le vibrazioni riformiste, per certi versi sorprendenti per essere, in misura prevalente, in capo ad un presule forse il più tradizionale in quanto a pompa episcopale ed a considerazione della autorità e del prestigio del successore degli apostoli, non importa se della regione mineraria più povera del mondo:  vale a dire l’anziano monsignor Giovanni Pirastru, vescovo di Iglesias – conoscitore dunque della realtà di vita del proletariato delle gallerie e conoscitore anche della provocazione evangelica dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld insediatisi a Bindua nell’estate 1957 –, rivelatosi propenso più di altri alla sinodalità quanto meno all’interno della regione ecclesiastica ed all’affermazione solenne di alcuni principi universali, peraltro in linea con lo storico “personalismo” cristiano (non sempre, nei fatti, compreso e applicato dalle stesse gerarchie cattoliche).

Singolari per un aspetto o per l’altro, anche le posizioni che, nell’indistinto conservatore-reazionario dell’ episcopato isolano (salva la santità di vita personale dei singoli), assumevano gli ordinari di Bosa e Ozieri, l’uno – monsignor Francesco Spanedda – propugnatore della teologia “combinatoria” fra Sacra Scrittura e Tradizione (il che però, dato il contesto, significava il riscatto della Scrittura dalla soverchianza della Tradizione), l’altro – monsignor Francesco Cogoni – sostenitore dello svincolo del lavoratore dalla schiavitù anonimizzante imposta dai processi produttivi tipici dalla modernità, invero soltanto in timido affaccio nella Sardegna della fine degli anni ’50 o dei primi anni ’60, quelli della cosiddetta Rinascita.

Una parola ancora, necessaria, su un indugio del prefatore davanti a qualche pagina dei materiali offerti dal saggio di Cabizzosu, perché forse esso dice molto del suo allenamento mentale e spirituale e della pratica attuale, gomito a gomito con papa Bergoglio. Egli tiene in lettura i testi di monsignor Giuseppe Melas, vescovo di Nuoro – amatissimo da barbaricini e baroniensi, sostenitore delle paci in superamento di faide secolari – difensore ad oltranza della lingua latina nella liturgia: ne loda passaggi di umiltà personale e metafore poetiche, fino però ad osservare: «E’ evidente come il Presule non avesse compreso il desiderio della maggioranza dei padri, secondo cui la liturgia non doveva essere considerata solamente come atto di fede, di amore e di adorazione al Signore, ma anche come fonte di insegnamento e di istruzione dei fedeli che, nella liturgia, vengono educati a crescere nella fede e sono chiamati a una attiva partecipazione».

Il campionario è vasto e vario ed entrano nella rassegna anche altre singolarità degne, non importa se per ragioni opposte, di segnalazione, come i contributi, nella sequenza periodale, di monsignor Basoli (ozierese-lanuseino), di monsignor Sebastiano Fraghì ecc. Conta piuttosto – e la richiamo per l’autorevolezza  della fonte al cui rimorchio qui mi pongo – il giudizio conclusivo di don Becciu: «Opportuni sono i commenti sintetici chiarificatori di don Cabizzosu, il quale nel presentare i contributi dei singoli Presuli, pur lasciando che emerga il loro pensiero, non manca di sottolinearne arretratezze e ritardi, così come semi innovativi e fondate speranze. Eppure, il merito dell’Autore è quello di dare semplici pennellate, senza dilungarsi in inutili ragionamenti, in modo da permettere al lettore considerazioni e riflessioni personali». E non solo: anche quello di presentare, tempestivamente, le prime attuazioni conciliari secondandone e diffondendone lo spirito informativo. Ed il bello, in questa materia ancora calda – aggiungo io –, è come allo studio delle carte si aggiunga l’eco della storia vissuta, dunque la memoria personale, il quadro visivo e sonoro di momenti qualsiasi che però ti fanno comprendere quel cambio di prospettiva avvenuto, in progressione, fra i vescovi. Meglio ancora: nella percezione ed acquisizione della lezione da parte dei presuli, professori-ed-alunni ad un tempo nella grande navata basilicale. Dirò la mia, circa il dopoConcilio: quando monsignor Tedde nella parrocchiale antica di Santa Barbara a Villacidro come a San Sebastiano in Arbus spiegava che alla messa si partecipa e non si assiste, che attorno all’altare non c’è il pubblico ma l’assemblea, che la celebrazione è concelebrazione del popolo con l’officiante, che al sacrificio s’accompagna il convito…

E a dire ancora di monsignor Antonio Tedde, in riscatto anche delle lentezze o dei ritardi dottrinali e il di più di devozionismo sopra richiamati, valga evocare qui lo spirito autenticamente evangelico, mostrato fin dall’esordio del suo episcopato alerese, di fatto consacrato come anticipatore, quasi quindici anni dopo, nella prima sessione conciliare perché, forse anche ignorando la profezia del confratello, il cardinale Maurice Feltin, arcivescovo di Parigi, rilanciò nella grande aula la proposta della generale abolizione delle tariffe circa i servizi all’altare. Quella abolizione definita appunto nella lettera In Paupertate, pubblicata nel venerdì santo del 1949 dal grande piccolo vescovo di Ales, futuro padre conciliare.

Resta indubbio, comunque, che l’episcopato sardo non poté segnalarsi come portatore di istanze tali da contribuire significativamente all’avanzamento o al dispiegarsi del progetto conciliare. Era già nella visione piuttosto giuridico-canonica che non pastorale, o dottrinale-pastorale, che esso aveva dell’evento chiamato da Giovanni XXIII per rinfrescare (e forse risanare)la Chiesa e la storia del mondo, la ragione della sua iniziale marginalità o subalternità. Si pensi alla lettera pastorale collettiva che, nella domenica di sessagesima del 1962, l’episcopato regionale – in quel momento dolorosamente orfano di monsignor Saba e ancora privo delle energie relazionali di monsignor Carta, con Sassari affidata temporaneamente alla amministrazione apostolica di monsignor Spanedda – diffuse fra il «Venerabile Clero» ed il «dilettissimo popolo» per la meditazione quaresimale di consacrati e fedeli.

Restava nella prosa dei vescovi, in cui inconsapevolmente significativo era anche l’uso di maiuscole e minuscole («Venerabile Clero» a fronte di  «dilettissimo popolo»), un tratto (insopportabilmente) paternalista, per fortuna andato progressivamente in desuetudine. Fu forse il primo atto di quella liberazione… lessicale, oggi pienamente matura, proprio il celebre discorso “della luna” pronunciato da Giovanni XXIII la sera dell’11 ottobre 1962: «è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre… ma tutti insieme, paternità e fraternità e grazia di Dio…». Fra qualche tempo smetteremo anche di chiamare i vescovi con il titolo simbolico di «pastori», essendo essi (o essendo chiamati ad essere), più propriamente – come noi sardi sappiamo benissimo – nient’altro che «servi pastori». Altro infatti è il Pastore, non suscettivo di alcuna replica vicariale.

I quadri episcopali isolani. Sono ventuno i profili biografici dei presuli che Tonino Cabizzosu disegna sul filo rosso della partecipazione alle sessioni conciliari. In una recente corrispondenza con lui ho dedotto anche altre figure – sul fronte dei nunzi apostolici (leggi Angelo Palmas, nelle legazioni vietnamita e cambogiana, poi in Colombia e Canada) – certamente presenti ai lavori conciliari, ma giustamente mi si è fatto presente che è stata la traccia bibliografica seguita – quella degli studi di Vincenzo Carbone (canonico basilicale e consultore della Congregazione per le cause dei santi e del Pontificio Consiglio per i testi legislativi) – a definito il range, almeno in questa prima edizione.

Molto opportunamente, a mio avviso, l’autore ha inserito in elenco tanto i vescovi in carica, al tempo del Concilio, nelle undici diocesi isolane, quanto quelli che di origine sarda (come Antonio Angioni o Pietro Maleddu OFM Conv.) ricoprivano ruoli fuori dell’Isola (nello specifico, il primo come ausiliare di Pisa e successivamente come residenziale di Pavia, il secondo come “missionario in esilio” in Italia, poi in Sardegna stessa, dopo esser stato prefetto apostolico in Cina fino al 1952). E non solo: anche quelli di origine continentale che alla nostra Isola sarebbero stati, presto o meno presto, assegnati per il servizio apostolico (da Sebastiano Baggio a Giuseppe Bonfiglioli e Giovanni Canestri, tutti e tre destinati nell’archidiocesi di Cagliari); così un ausiliare (Enea Selis,al tempo a Iglesias); così ancora quelli che non poterono partecipare a tutte e quattro le sessioni, o per intervenuto decesso (come Mario Ghiga della diocesi di Ampurias-Tempio) o perché promossi all’episcopato in costanza di Concilio (oltre a Selis, Giovanni Melis Fois, appunto nella Chiesa di Ampurias-Tempio, prima del trasloco a Nuoro). Opportunissimo anche l’inserimento di due vescovi che poterono partecipare soltanto alla fase ante-preparatoria e preparatoria, ad iniziare dai Consilia et vota, prima che motivi di salute ne ottenessero il trasferimento alla quiescenza (come Carlo Re, già vescovo missionario della Consolata in Africa e dal 1951 a capo della tribolata Chiesa di Ampurias-Tempio, predecessore di Ghiga) oppure che la morte li dirottasse rapidi al Concilio del cielo (dico Arcangelo Mazzotti e Agostino Saba, entrambi, in successione, sulla cattedra episcopale turritana). Aggiungerei sul punto – per notizia riferitami dal cardinale Capovilla nelle remote confidenze per il mio saggio Papa Roncalli e la Sardegna –  che Saba era stato l’autore del regolamento “previo” conciliare, o della prima bozza d’esso. Di tanto egli, antico e prestigioso dottore dell’Ambrosiana e dal 1953 vescovo di Nicotera e Tropea in Calabria (dove gli sarebbe successo don Bonfiglioli, più tardi destinato a Siracusa e finalmente a Cagliari!), redigette e stampò nella solitudine dello scantinato del misero episcopio a Tropea, ancora lesionato dal terremoto del 1908, una sola copia, quella per Giovanni XXIII suo amico e grato protettore, che gliela aveva richiesta fidando nella sua competenza e saggezza.

Sarebbe da dire, in proposito, che l’incarico il papa lo conferì al dotto «cappellano dei poveri» (definizione di monsignor Saba nelle parole del segretario del pontefice), ricevuto in udienza speciale il 2 febbraio 1959, ad una settimana cioè dall’annuncio della indizione conciliare dato da Giovanni XXIII in San Paolo fuori le mura nella solennità della conversione dell’Apostolo delle genti. «Si trattò di un lungo colloquio. Il papa – mostrandogli così tutta la sua stima e benevolenza – lo incaricò… Saba stesso provvide in tempi rapidi…». E’ la testimonianza resami dal cardinale Capovilla il 12 luglio 2001. Con una postilla: «Alla prima occasione occorrerà sistemare Saba». Parole rivelatrici di una intenzione e, insieme, appunto di memoria per il fedele segretario: «Così quando morì monsignor Mazzotti, nel 1961, lo mandò a Sassari, dove rimase dieci mesi, perché un tumore al cervello lo uccise anzitempo».

Andando per rispettabili curiosità si potrebbe anche rilevare che almeno uno dei sardi – Paolo Carta, particolarmente caro a Cabizzosu – sviluppò la sua partecipazione in evoluzione di incarichi, cominciando (nella fase antepreparatoria) a Foggia e proseguendo (per le quattro sessioni) a Sassari: serdianese successore di serdianese…

A guidare con stabilità il resto delle Chiese locali della regione ecclesiastica sarda erano gli arcivescovi Paolo Botto e Sebastiano Fraghì, rispettivamente a Cagliari (dal 1949) ed a Oristano (dal 1947),i vescovi Giovanni Pirastru ad Iglesias (dal 1930), Lorenzo Basoli a Lanusei (dal 1936), Adolfo Ciuchini mercedario ad Alghero (dal 1939), Francesco Cogoni ad Ozieri (pure dal 1939), Giuseppe Melas a Nuoro (dal 1947), Antonio Tedde ad Ales (dal 1948), Francesco Spanedda a Bosa (dal 1956). Personalità fra loro indubbiamente molto diverse non soltanto per tratto caratteriale ma anche per esperienza maturata negli uffici clericali – taluno a Roma (come Fraghì, al Sant’Officio) o comunque in diocesi del continente (come Botto, fra Genova e Chiavari) – pur se associabili, per dato elementare di formazione, essi  e gli altri loro colleghi faticarono in certa misura ad entrare negli schemi mentali innovatori affermatisi nel Concilio ma pure furono tutti estremamente leali con i deliberati finali cui, pressoché integralmente, unirono il loro placet, nella attuazione operativa presso le diocesi di competenza. Bisogna ripeterlo: non senza fatica mentale, ma lealmente, tanto più per quanto entrava nella dimensione comunitaria e anzi comunionale che assorbiva, in attesa anche della riforma del codice di diritto canonico che sarebbe venuta quasi due decenni dopo!, il rigore gerarchico davvero poco consentaneo con la familiarità evangelica.

Di ciascuno dei presuli in campo, don Cabizzosu fornisce, con un modello elastico ma di processo, unitamente (quando possibile) alla rappresentazione anche dimensionale della diocesi governata, biografia o curriculum vitae, un prospetto sintetico della partecipazione ai lavori in aula e la rassegna dei contributi alla fase antepreparatoria, come poi di quelli orali, scritti o risolti in una sottoscrizione a proposte, emendamenti ecc., infine il repertorio dei documenti finali: costituzioni, decreti, dichiarazioni, ecc. sul tanto discusso dall’assemblea plenaria. Così sulla liturgia, i mezzi di comunicazione, l’ecumenismo, le Chiese orientali, l’educazione cattolica, le relazioni con le religioni non cristiane, la formazione sacerdotale, il rinnovamento della vita religiosa, l’ufficio pastorale dei vescovi, l’apostolato die laici, la libertà religiosa, l’attività missionaria della Chiesa, il ministero della vita sacerdotale, ecc. Nel tanto il massimo: la Lumen Gentium (costituzione dogmatica sulla Chiesa), la Dei Verbum (costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione), la Gaudium et spes (costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo).

Aiutano certamente a una acquisizione rapida e di sintesi  anche le elaborazioni grafiche che Cabizzosu fornisce, essendosi potuto valere di uno staff di collaboratori di primissima qualità, fra i quali mi sentirei di richiamare soprattutto Giuseppe Lisei, Andrea Quarta e Nicola Settembre, formidabili  assistenti anche nella redazione del volume sulle Fonti.

Sulle Fonti. Debbo qui introdurre una rapida parentesi sul primo dei due volumi offertici dall’autore. In oltre duecento pagine, Cabizzosu riporta, seguendo l’ordine alfabetico dei nominativi dei vescovi protagonisti, gli atti a loro firma inviati nella fase antepreparatoria (1959) – e dunque i famosi Consilia et vota –, i discorsi in aula, gli scritti rimessi alla Commissione Centrale. Nell’elenco compaiono giustamente, per la parte da loro avuta, anche la Conferenza Episcopale Sarda in quanto tale e la Pontificia Facoltà Teologica di Cuglieri. Seguono le sottoscrizioni, richiamate col nome del primo estensore/proponente, nonché la lettera pastorale collettiva diffusa nella Quaresima 1962.

Si tratta, in sostanza, della ripresa dei testi che si trovano già pubblicati negli Acta Synodalia, essendo stata intenzione dell’autore quella di donare agli analisti «uno strumento di lavoro che aiuti a ricostruire l’apporto offerto da ogni singolo vescovo durante la celebrazione dell’assise ecumenica. Tale motivazione – aggiunge Cabizzosu – muove dall’esigenza di mettere lo studioso davanti al testo del documento nella sua totalità e non di leggerne solo determinate parti come, invece, è stato fatto finora da altri storici». Ciò al fine di giungere «a un’ermeneutica integrale del documento e cogliere il pensiero dell’autore a tutto tondo».

Il compendio generale. Dalle rappresentazioni grafiche emerge il quantum: negli interventi scritti (58 in tutto) si distinguono Cogoni con quattordici, Tedde con otto, Maleddu con sette, Melas con quattro (e direi anche Bonfiglioli e Canestri ciascuno con cinque); circa gli interventi orali in aula (6 complessivamente) Melas con tre, Tedde con uno (e Canestri con due); riguardo alle sottoscrizioni collettive (41 in totale) la partecipazione è pressoché unanime, segnalandosi comunque soprattutto Basoli, Carta, Cogoni, Spanedda con quattro, e Botto, Maleddu, Melas e Melis con tre.

Aggiungerei che, prima di entrare nel dettaglio dei singoli contributi, l’autore offre in una ventina e passa di pagine introduttive una panoramica generale sulla partecipazione dell’episcopato italiano (all’interno del quale – con luci e ombre – quello sardo va collocato, per la comunanza dei fondamentali) nonché una serie di efficacissimi focus sullo specifico isolano, con riferimenti essenziali ai Protagonisti – da cui il sottotitolo del volume – ed al loro inserimento nelle attività antepreparatorie, ad iniziare dai richiamati questionari dei Consilia et vota. Si tratta di pagine illuminanti che facilitano il lettore, attento e intelligente, ad entrare in confidenza con le mentalità e le sensibilità ora spirituali ora puramente ecclesiali di quei monsignori. Per arrivare infine al dire o fare in aula. Ed è proprio in tale contesto che Cabizzosu offre una bibliografia straordinariamente vasta, ordinata e coerente per la decodifica dell’evento magno del Novecento (e mi sovviene qui, come legge di virtuoso contrappasso, il ricordo di quella definizione di Gregorovius, circa la caduta del potere temporale, del santo 20 settembre come «il giorno più grande del secolo XIX», tale benedetto e riconosciuto provvidenziale, un secolo dopo, da Paolo VI, nell’ombra restando il «non possumus» e anche la ghigliottina per lunghi anni azionata dal boia delegato di Pio IX).

Va detto che alcuni dei presuli – come i tre metropoliti e gli ordinari quanto meno di Nuoro, Ozieri ed Ales (ma con minore continuità anche quasi tutti gli altri) – seppero tenere aggiornati i loro diocesani su quanto avveniva nelle tornate di lavoro nella basilica di San Pietro. Alle articolesse (tali per la lunghezza non per la noia invero assente del tutto) di monsignor Melas su L’Ortobene e di monsignor Tedde su Nuovo Cammino, facevano speciale contrappunto, per la regolarità e lo schema formale grafico, nonché per il taglio confidenziale e anzi teneramente paterno, le lettere che monsignor Carta inviava al settimanale sassarese Libertà (l’invenzione di padre Manzella rimontante addirittura nel 1910!). Ho recuperato ormai da qualche anno e scannerizzato o ribattuto alla tastiera del computer i blocchi integrali delle cinquanta e passa lettere di don Paolo ai suoi diocesani (ne ho dato conto tanto su Libertà stessa, pochi anni fa, quanto in un convegno svoltosi al seminario arcivescovile di Cagliari nel 2006). Quando possibile vorrei pubblicare questo patrimonio sì informativo ma anche specchio della sensibilità e della cultura teologica (datata certamente: soprattutto si vedano le pagine dedicate al battesimo e, drammaticamente, al limbo!) di un vescovo carissimo che ho amato per l’afflato sacerdotale rimasto fresco e ardente, direi intimamente francescano, anche nella più tarda età. (Non a caso l’ultimo suo atto canonico fu la concessione per trent’anni della tenuta di S’Aspru al circuito comunitario di Mondo X Sardegna, a patronato francescano!).

La stampa sarda tenne costantemente accesi i suoi riflettori sui lavori conciliari, tanto più, ovviamente, quella religiosa e diocesana. Ricordo sempre il fondodi prima pagina con cui L’Unione Sarda a direzione Crivelli aprì l’edizione dell’11 ottobre 1962: con una ampia riflessione proposta dal caro don Giuseppe Lepori , al tempo parroco di San Lucifero e presidente dei parroci urbani di Cagliari, e già per lunghi anni responsabile del Quotidiano Sardo. Anche quella cessione di spazi, quell’invito formulato all’antico competitore dell’edicola isolana da parte di un direttore di formazione liberale e democratica, fu un segno dei tempi. Ne parlai, una volta, con Crivelli stesso, che ricordava con bonomia quei rapporti rispettosi ,e puntuti talvolta soltanto, con la stampa cattolica locale. Puntuti però già dal suo arrivo a Cagliari, nel gennaio 1954, perché l’arcivescovo Paolo Botto relegò pubblicamente il quotidiano di Terrapieno nell’inferno della «cattiva stampa» inducendo il giovane direttore a indirizzargli una lettera aperta ed a chiedergli conto, ribaltando gli argomenti  sconclusionati fatti propri da più d’un prete in città («Uno di loro ha voluto addirittura dichiarare il nostro giornale “più pericoloso dell’Unità”, perché se l’organo del PCI è un giornale “apertamente e dichiaratamente nemico”, il nostro lo è invece “abilmente e copertamente”»…).

Il confessionalismo pesante e addirittura opprimente degli anni ’50, evoluzione o mutazione del conformismo fascista dei decenni precedenti, cominciò ad essere bucato proprio allora, negli anni del Concilio che in Italia significarono anche, sul fronte politico, l’apertura della stagione del centro-sinistra e di una graduale secolarizzazione del costume e dello spirito pubblico.

A riflettere criticamente sul cinquantennio trascorso duole pensare alle occasioni perse per guidare l’inevitabile liberalizzazione con i criteri di una responsabile pedagogia civile e un di più di testimonianza religiosa. Il deficit di saviezza e lungimiranza della classe dirigente tanto nella politica quanto nella stessa Chiesa (nei ranghi curiali ed episcopali), rivelato anche dalla paura stessa di porre ed accettare le domande, ha consentito e perfino favorito storture che, tanto nella vita sociale quanto in quella religiosa, ci saremmo potuti risparmiare. La censura tuttora nella prassi ordinaria dei vescovi – guardando alla Sardegna ho richiamato di recente i casi non commendevoliMiglio e Sanna –, la derubricazione ad accidente inutile del Concilio Plenario Sardo, la soggezione per lunghi anni al fare da padrone di un presidente della CES che neppure pubblicava gli atti della Conferenza, gli sprechi clamorosi di denaro pubblico per il college già seminario cagliaritanocostato tanti… mattoni popolari negli e degli anni ‘50,  le prepotenze feudali ed antiapostoliche in danno di sacerdoti di alto sentire – ma invero anche il prossimo beato monsignor Romero fu umiliato in una anticamera prima del martirio sull’altare! –, cento altri penosi abusi si sono spalmati davanti a noi e il soltanto evocarli pare stoltamente connotare di odio quanto invece è pura affezione ed afflizione. Mi pare di ricordare fosse nella conversazione con Eugenio Scalfari che papa Francesco se ne uscì con una frase del tipo «quanto incontro un clericale mi sento istintivamente anticlericale». E infatti: che c’entrano i clericali con gli spirituali? E dunque? Con i talarini diffusi qua e là in testimonianza controconciliare si ha notizia di parroci che con le loro omelie talvolta arrivano a bacchettare e impaurire i bambini! ed inducono, se non alla perdita della fede, certo all’estraneità crescente dalla Chiesa comunitaria.

Questo libro bellissimo di un autore illustre e generoso, colto ed esperto quale certissimamente è don Tonino Cabizzosu, fotografa quattro anni di lavori nella grande e magnifica basilica vaticana, e li fotografa ora che siamo alla vigilia forse di una formidabile nuova sterzata, con l’ingresso davvero prepotente delle donne e del laicato nelle responsabilità generali e nella direzione dei servizi di Curia a Roma e, in replica al modello, nelle diocesi. Resta a noi di completare l’opera quanto meno suggerendo riflessioni nel confronto fra quella stagione e questa, senza frenarci con autocensure e senza arrenderci davanti alle censure: fra l’entusiasmo ottimistico ed il riflusso d’oggi, fra la partecipazione che vescovi benché datati seppero comunque suscitare nelle loro Chiese particolari in quegli anni ’60 e – pur in mezzo al molto che eccelle (ricordo in primis le Caritas diocesane) – la diserzione e/o l’indifferenza che i competenti chiamano “scisma silenzioso” e che sta divorando quote crescenti di battezzati. Perché all’indifferenza dei battezzati per le cose della religione corrisponde sempre più l’indifferenza dei «servi pastori» per lo scisma che s’allarga. E così ci facciamo distruttori, non costruttori…

Addenda.

A.1) – Datata da Sassari il 15 gennaio 2001, ricevetti questa testimonianza da monsignor Francesco Spanedda, arcivescovo emerito di Oristano e già vescovo di Bosa e poi di Alghero-Bosa, nonché presidente della Conferenza Episcopale Sarda:

«Caro Amico, scusandomi per il ritardo, rispondo alla Sua gradita del 26 dicembre 2000, nella quale mi chiede il contributo della mia testimonianza di Padre conciliare del Vat. II al libro che Lei sta per pubblicare sul tema dei rapporti di Papa Giovanni XXIII con la Sardegna. La richiesta circa la mia testimonianza conciliare mi è molto cara, dato che ho avuto il privilegio, senza mio merito, di vivere dall’interno le vicende del Vat. II come membro della Commissione teologica, cui era demandato il compito di esaminare i testi più importanti attinenti alla fede e alla morale prima che fossero proposti alla discussione nella sessione plenaria nella Basilica Vaticana. Già nel 1992 avevo rilasciato un’intervista sul Concilio a Dialogo foglio della diocesi di Alghero-Bosa, in persona del suo direttore don Antonello Mura. Non so quanto potrà esserLe utile, ma mi sembra bene mandargliela nell’acclusa fotocopia. Allo stesso fine, Le mando fotocopia di un articolo in due puntate pubblicato nel 1990 sul settimanale diocesano Libertà di Sassari nel XXV del Vaticano II dal mio caro amico Mons. Enea Selis, dolorosamente scomparso l’anno scorso.

«L’articolo intitolato “Cronaca Minore del Concilio” mi è sembrato molto interessante, perché frutto dell’esperienza personale dell’autore.

«Inoltre, come piccolo segno della mia buona volontà, Le mando fotocopia dei due molto semplici discorsi da me tenuti a Bosa all’inizio e alla conclusione del Concilio.

«Naturalmente lascio a Lei di giudicare con piena libertà se e quanto potranno esserLe utili. Lo stesso vale anche per le notazioni qui di seguito circa la mia esperienza conciliare. Come Lei avrà saputo, nel maggio del 2000 la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna mi ha fatto l’onore di promuovere, nella ricorrenza del mio 90° compleanno, un Atto Accademico con un “colloquio” (non conferenza né tantomeno lezione scolastica) che ho tenuto nell’aula magna nella mia qualità di testimone, unico superstite fra i Vescovi sardi che hanno partecipato a tutti i lavori del Concilio Vat. II.

«L’iniziativa tecnicamente prendeva le mosse dal Convegno internazionale, svoltosi nel febbraio 2000 sul tema “Il Concilio a 35 anni dalla sua celebrazione”. Erano presenti oltre 250 studiosi provenienti da ogni continente, fra i quali anche il P. Natalino Spaccapelo, allora Preside della Pont. Facoltà Teologica della Sardegna. Nel Convengo furono evidenziate luci e ombre nella ricezione del Concilio. Il S. Padre Giovanni Paolo II tenne un’allocuzione nella quale affermò che questo è un tempo di verifica e di approfondimento e che per molti anni il Vaticano II resterà punto di riferimento del magistero e della vita della Chiesa.

«Nel mio “colloquio” io esposi a brevi tratti l’esperienza da me vissuta al Concilio. E’ stata un’esperienza arricchente sul piano religioso e umano. Già all’apertura, ottobre 1962, fu esaltante il fatto di avere sotto gli occhi in concreto la cattolicità della Chiesa, rappresentata da Pastori e studiosi di tutto il mondo e di tutti i riti.

«Ma l’esperienza più profonda e gratificante fu, al di là dei dati statistici, quella di vedere e quasi toccare con mano la presenza e l’azione dello Spirito Santo, di quello Spirito che aveva illuminato l’anima di Papa Giovanni XXIII ispirandogli di convocare il XXI Concilio Ecumenico della storia cristiana.

«Il Papa ebbe l’intuizione della necessità di un profondo rinnovamento nella vita e nell’azione della Chiesa. La parola d’ordine fu “aggiornamento”, che i gruppi di comunicazione diffusero in tutto il mondo.

«I criteri dell’aggiornamento furono: 1) ottimismo: “bando ai profeti di sventura”; 2) superamento delle condanne: la Chiesa oggi preferisce la medicina della misericordia; 3) uso di un linguaggio nuovo, più accessibile alla mentalità del mondo moderno nell’esposizione delle verità della fede.

«Già all’inizio dei lavori apparve chiaro che soltanto un intervento divino poteva far superare le molte gravi difficoltà che il Concilio avrebbe incontrato. Due tendenze contrastanti si fronteggiavano, sostenendo con forza ciascuna le proprie posizioni – erano chiamati progressisti e conservatori – arrivando a scontri polemici talvolta drammatici.

«Già nella prima riunione della Commissione teologica si rivelarono gravi contrasti fra le due tendenze. Si trattava di valutare lo “schema” sulla divina rivelazione. Dopo l’introduzione del Presidente card. Ottaviani, che col suo latino quasi ciceroniano disse le lodi del documento, raccomandandone la discussione in aula, un prelato non italiano, insigne per dottrina e spirito pastorale, (divenne poi cardinale) con tono cortese ma fermo, usando la forma interrogativa, rivendicò la piena libertà dei commissari di esprimere il proprio pensiero quando non erano d’accordo sul testo. Io ne fui profondamente emozionato, e rivolgendomi a un giovane vescovo latino americano espressi la mia meraviglia con queste parole: “Quid est hoc?”. La risposta fulminante fu: “Necessarium erat!”. Compresi allora che giorni difficili si preparavano.

«Non trovandosi l’accordo in sede di commissione, fu proposta una pubblica votazione esplorativa. In aula la votazione non diede risultati decisivi, mancando il raggiungimento di due terzi dei voti stabilito dal regolamento. Il Concilio era arrivato a un punto critico.

«Papa Giovanni ebbe a soffrirne, lui che prevedeva di concludere il Concilio in quell’unica Sessione, come aveva detto in un discorso: “Per Natale tutti i Vescovi a casa”. Ma il carisma che gli era proprio si rivelò anche in quella occasione. Passando oltre l’espressione numerica della votazione, il Papa ordinò che lo “schema” fosse ritirato, lasciando alla Commissione teologica, integrata dal Segretariato per l’unione dei cristiani, presieduto dal card. Agostino Bea, ampia libertà di rivedere il testo e di modificarlo secondo scienza e coscienza pastorale. Il Papa seguiva i lavori e talvolta ci mandava il suo fiducioso saluto.

«La discussione generale sul documento fu ribaltata alla III Sessione e l’approvazione finale della Costituzione dogmatica “Dei Verbum” si ebbe soltanto nella IV Sessione il 18 novembre 1965, quando il Concilio si avviava alla conclusione.

«Con la morte di Papa Giovanni, 3 giugno 1963, fu automaticamente sospeso. Il successore Paolo VI nel giorno stesso della sua elezione, 18 giugno 1963, ne dispose la riapertura.

«Le vicende dei documenti conciliari, eccettuata la Costituzione sulla liturgia, approvata nella prima Sessione e il Decreto sulle comunicazioni sociali, furono anch’esse molto laboriose. Per avere un’idea dell’immenso lavoro compiuto, basta pensare che la Costituzione dogmatica “Lumen Gentium” sulla Chiesa fu approvata dopo 39 votazioni sulle singole parti e dopo l’esame di oltre 5mila “modi” (emendamenti). Il risultato fu sorprendente: su 2156 votanti, si ebbero soltanto 5 voti contrari. Soltanto lo Spirito Santo poteva operare il “miracolo”. Questa certezza diventava gratitudine immensa espressa dal canto del “Te Deum” sotto le volte dorate della Basilica vaticana.

«Questo successo è anche merito degli uomini che hanno assecondato le mozioni dello Spirito. Primo fra tutti Paolo VI, che del Concilio è stato coraggioso e sapiente pilota.

«Le asprezze polemiche dei primi tempi si sono man mano attenuate, le distanze raccorciate: tutti, Padri e Periti, abbiamo fatto l’esperienza della conversione, favorita dalla reciproca conoscenza negli incontri personali e di gruppo. Si giunse così alla elaborazione dei più significativi documenti, quali la Costituzione “Gaudium et Spes” sulla Chiesa nel mondo moderno, preceduta dalla “Sacrosanctum Concilum” sulla liturgia, la “Lumen Gentium” sulla Chiesa, la “Dei Verbum” sulla divina rivelazione. Furono inoltre approvati 9 Decreti e 3 Dichiarazioni. Particolarmente importanti il Decreto sull’ecumenismo e la Dichiarazione “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa.

«Concludo questa mia testimonianza col ricordo incancellabile del rito di chiusura del Concilio e della firma del documento di promulgazione. Primo a firmare fu, ovviamente, il Papa con la formula “Paulus Catholicae Ecclesiae Episcopus”. Quando venne il mio turno, firmandomi “Ego Franciscus Bosanensis Ecclesiae Episcopus”, il nome della cara piccola città di Bosa si inseriva insieme col suo Pastore a pari titolo con le più grandi metropoli del mondo nella storia del più importante evento religioso del secolo XX».

A.2) – Ecco il testo dell’intervista – titolo “Il Concilio visto da vicino” – rilasciata da monsignor Francesco Spanedda ad Antonello Mura ed uscita su Dialogo del 31 ottobre 1992:

«L’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII aprì ufficialmente il Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Papa morirà nel maggio [recte: giugno] del 1963 e il suo successore, Paolo VI, proclamerà concluso il Concilio l’8 dicembre 1965.

«Dall’inizio del Concilio sono passati trent’anni. La Chiesa ha ricordato in questi giorni quell’avvenimento decisivo della sua storia che rimane, ancora oggi, riferimento determinante del suo cammino. Noi siamo andati a trovare un testimone di quell’evento, uno dei due Vescovi sardi attualmente in vita – l’altro è Mons. Paolo Carta – che vi abbia partecipato: Mons. Francesco Spanedda, arcivescovo emerito di Oristano, oggi residente a Sassari.

«Mons. Spanedda, nato a Ploaghe nel 1910, era in quegli anni Vescovo di Bosa. Ricevette la consacrazione episcopale il 17 marzo 1957 e guidò la diocesi bosana fino al 1979. Dal 1972 al 1979 fu contemporaneamente anche Vescovo di Alghero, prima di essere trasferito a Oristano, dove rimase fino al 14 gennaio 1986, quando Giovanni Paolo II accettò le sue dimissioni per raggiunti limiti di età.

«Mons. Spanedda ci accoglie con la consueta cortesia. Gli avevamo preannunciato telefonicamente l’intenzione di ascoltarlo sul Concilio – argomento che affronta volentieri –, e lo ritroviamo come sempre puntuale, preciso, attento a tutti i particolari.

«Mons. Spanedda, cosa significava per un Vescovo partecipare al Concilio?

« – L’atmosfera era quella dei grandi momenti. Era presente in tutti la consapevolezza di poter contribuire al rinnovamento della Chiesa, della sua vita e della sua azione nel mondo. All’inizio non tutto era chiaro sul metodo, ma subito dopo ci penserà lo Spirito Santo…

«E’ vero che molti, Papa compreso, erano convinti che sarebbe durato solo pochi mesi?

« – Si. L’intenzione di Papa Giovanni era quella di concludere tutto entro Natale, in un’unica Sessione. Ma presto ci si accorse che non era possibile.

«Cosa avvenne?

« – Il Concilio fu annunciato ufficialmente nel 1959 e subito dopo il Papa diede l’incarico, prima a delle Commissioni antepreparatorie e poi preparatorie, di formulare delle bozze di lavoro. Questi Schemi, 72 in tutto, avrebbero dovuto essere, una volta approvati, i Documenti finali del Concilio. Solo che…

«Solo che?

« – Non trovarono il consenso necessario. Su uno degli Schemi più importanti, quello sulle fonti della Rivelazione, si ebbe un acceso dibattito. Fu messa ai voti la possibilità di continuare la discussione sulla bozza, ma il voto non diede un risultato decisivo perché non venne raggiunta la maggioranza dei 2/3. Data la situazione bloccata intervenne Giovanni XXIII: lavorate sul testo e modificatelo come volete. Si comprese subito che non sarebbe stato quel Natale la data della conclusione.

«Si è sempre parlato della presenza di Vescovi progressisti e conservatori…

« – Effettivamente nel Concilio si prefigurarono immediatamente due tendenze: la prima, considerata progressista, poteva contare sui Vescovi dell’Europa centrale (francesi, inglesi e tedeschi) affiancati da molti Vescovi provenienti dagli altri Continenti (orientali, africani e sudamericani); questi Padri conciliari, sorretti da esperti teologi, volevano un concreto e profondo rinnovamento della vita e dell’azione della Chiesa. L’altra tendenza, considerata conservatrice, si richiamava soprattutto alla perenne tradizione della Chiesa che si intendeva salvaguardare e difendere. La composizione di questa tendenza si presentava però più variegata: c’erano gli estremisti, come Lefebvre, e i mediatori, come i Vescovi italiani e spagnoli.

«Sono sorte delle tensioni tra i Vescovi che rappresentavano le due tendenze?

« – Al Concilio eravamo presenti circa 2500 Vescovi, e non sono mancate le tensioni e i confronti anche aspri sui temi in discussione. Devo però affermare che non è mai venuta meno la buona fede, e molte difficoltà sono state superate grazie a un rapporto che, anche a livello personale, si è consolidato nel tempo. Al momento delle votazioni finali, nonostante ci fossero dei voti contrari, si percepiva sempre una significativa unanimità morale.

«Giovanni XXIII aprì e avviò il Concilio, Paolo VI lo proseguì e lo concluse: in che misura incisero sul Concilio i due Papi?

« – Giovanni XXIII accolse un’ispirazione dello Spirito di portata enorme. Era un Papa che, in linea con l’ottimismo evangelico, voleva presentare al mondo una Chiesa dal volto nuovo e con un linguaggio pastorale più accessibile ai nostri tempi. Paolo VI era un uomo di grandissima cultura, che aveva il senso dell’altissima responsabilità della Chiesa, e che seppe portare a termine il Concilio con grande coraggio.

«Quali sono stati i Vescovi che hanno lasciato un segno determinante?

« – Sono tanti. Ricorderei in particolare i cardinali Montini (futuro Paolo VI) e Suenens, nel senso che entrambi, all’inizio del Concilio, posero un problema fondamentale: quale deve essere il tema unificante del lavoro conciliare? La loro proposta, poi accettata, fu quella di considerare la Chiesa, vista nel suo interno e nei rapporti col mondo, la base per l’elaborazione di tutti i pronunciamenti.

«A quale documento conciliare Lei ha partecipato più attivamente?

« – Ciascun Vescovo apparteneva a una Commissione, io ero inserito in quella dottrinale, composta da 30 membri, di cui quattro italiani. La nostra Commissione, chiamata anche teologica, insieme col Segretariato per l’unione dei cristiani e per l’apostolato dei laici, gettò le basi delle Costituzioni “Lumen Gentium” e “Gaudium et Spes”, che ritengo possano essere considerati i Documenti più significativi del Concilio. Lavoravo insieme a personalità molto spiccate, spiritualmente, e a temperamenti molto diversi; in certi momenti ci voleva del coraggio a parlare, ma tutti ci sentivamo ascoltati e rispettati.

«Quali sono le caratteristiche della Chiesa che il Concilio ha consegnato?

« – Una Chiesa Popolo di Dio, Corpo Mistico del Cristo, Comunione. Una Chiesa, secondo la definizione della “Lumen Gentium”, “che è in Cristo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Il Vaticano II può essere definito il Concilio che ha messo in luce il valore essenziale della collegialità episcopale, completando quanto il Vaticano I aveva definito riguardo il primato e l’infallibilità del Papa. La suprema autorità della Chiesa è esercitata sia individualmente dal Papa, sia dal Collegio dei Vescovi unito al romano Pontefice e mai senza di lui.

«Prima si accennava al ruolo dei teologi…

« – Molti Vescovi europei, insieme ad alcuni teologi, già dal 1959, anno di indizione del Concilio, si erano preparati ad affrontare i temi che poi sarebbero stati all’attenzione dei Padri conciliari: l’ecumenismo, la libertà religiosa, il ruolo dei laici, il progresso… Congar, Ranher, De Lubac, Chenu, per citarne alcuni, hanno influito molto sui Documenti conciliari. Erano persone grandi anche quando, per vari motivi, si doveva dissentire da loro. Un solo esempio per far capire la meticolosità e la preparazione di questi teologi: un giorno incontro Congar che mi dice: “Ah, lei è Spanedda, sono lieto di incontrarla e di dirle che ho molto apprezzato la sua Tesi di laurea sul Mistero della Chiesa in S. Agostino”; “in realtà – risposi – quella è stata la Tesi di laurea in Teologia di mio fratello Gavino”; era sorprendente che un teologo come lui fosse andato a leggersi la Tesi di uno studente di teologia.

«Molti vedono alcune ombre nell’applicazione del Concilio…

« – La prima ombra è la non conoscenza del Concilio stesso, e vale per il clero e non solo per i fedeli. Inoltre c’è stata sicuramente qualche fuga indietro; Lefebvre dopo aver firmato i Documenti rinnegò tutto, aprendo una ferita profonda nella Chiesa; ma anche qualche fuga in avanti, quella ad esempio di far dire al Vaticano II quello che non ha detto. In realtà i principi sono chiari, ma le crisi – anche la Chiesa ha il suo ’68 – non sono mancate, soprattutto nella liturgia, che fortunatamente sono andati rientrando.

«I tempi di oggi sono quelli descritti da un Concilio di trent’anni fa?

« – I valori essenziali presenti nel Vaticano II hanno perenne attualità, anche se mutano le condizioni storiche. Se il tempo oggi corre veloce l’applicazione del Concilio continua ad essere un compito decisivo anche per i nostri giorni».

A.3) – Dello stesso monsignor Spanedda, ecco il testo della omelia alla messa “di ritorno” a Bosa – il 12 dicembre 1965 –, a conclusione dell’ultima sessione dell’evento conciliare.

«Tre anni circa sono passati da quel 7 ottobre 1962 quando mi incontrai con voi in questa nostra antica chiesa cattedrale di San Pietro in occasione della mia partenza per il Concilio Vaticano II convocato dal S. Padre Giovanni XXIII di felice memoria. Come allora, ci incontriamo al mio ritorno dal Concilio felicemente concluso mercoledì scorso, nella solennità dell’Immacolata. Io non ho bisogno di molte parole per dirvi il mio saluto: voi ben sapete quali sentimenti di stima e di affetto nutro per voi…

«Voi non avrete difficoltà a credermi se vi dico che sono lieto di ritrovarmi qui con voi dopo la lunga assenza a causa della mia partecipazione ai lavori del Concilio. Lontano da Bosa, ho sentito sempre più pungente la nostalgia delle persone cose care in mezzo alle quali la Divina Provvidenza mi ha chiamato a svolgere la mia azione pastorale.

«Col saluto vi porgo il mio ringraziamento perché siete venuti, per aver voluto venire a questo incontro col Vescovo che rientra dal Concilio. Ringraziamento che rinnovo particolarmente vivo al Delegato vescovile Mons. Meaggia, al Sindaco e al presidente della Giunta diocesana di Azione Cattolica cav. Mannu, che insieme con l’on. Delrio mi hanno fatto la cara sorpresa di trovarsi a ricevermi, giovedì scorso, in nome della diocesi all’aeroporto di Cagliari.

«Eccoci dunque qui raccolti davanti all’altare per rendere grazie al Signore, che ci ha concesso di vivere quest’ora grande della storia della Chiesa. Rendo grazie personalmente io che coi Vescovi di tutto il mondo ho avuto il privilegio incomparabile e irripetibile di essere membro dell’assemblea conciliare. E’ stata un’esperienza straordinaria sotto ogni aspetto: religioso e umano, culturale e pastorale. Abbiamo respirato l’atmosfera della più alta spiritualità. Abbiamo studiato e pregato insieme, abbiamo imparato a conoscerci e stimarci, a vedere i diversi volti con cui l’unica Chiesa di Cristo si configura nelle diverse parti del mondo.

«Come Vescovo di Bosa ho avuto l’onore e la gioia di far conoscere a Vescovi di tutti i continenti il nome della nostra cara città. E amo pensare che tanti miei amici Vescovi ricordando qualche volta colui che vi parla ricorderanno anche la cittadina sarda che si stende lungo le rive del Temo. Anche di questo ringraziamo il Signore.

«Ma soprattutto lo ringraziamo per ciò che il Concilio significa per la Chiesa e per il mondo. Il Concilio Ecumenico Vaticano II resterà nella storia come il più grande evento spirituale del secolo XX e uno dei più significativi della storia cristiana. L’ispirazione provvidenziale del papa Giovanni XXIII, raccolta con pari fervore da Paolo VI, si è concretata in un immenso movimento spirituale che ha coinvolto con la Chiesa tutto il mondo, anche quello non cristiano, ha acceso una nuova luce di speranza in mezzo alle sofferenze e inquietudini del nostro tempo tormentato.

«La grandiosità del Concilio è già insinuata dalla semplice considerazione dei suoi aspetti esteriori, delle circostanze  in cui si è svolto, della mole di lavoro che si è compiuto. Oltre duemila Vescovi hanno partecipato abitualmente alle congregazioni generali nella basilica di San Pietro; nell’ultimo periodo si è raggiunto il numero di circa 2400. Erano presenti come osservatori rappresentanti delle confessioni cristiane separate dell’Oriente e dell’Occidente. Si sono tenute 168 congregazioni generali; si sono avute 540 votazioni. Sono stati approvati 17 documenti di carattere dottrinale, pastorale e disciplinare.

«Ma l’importanza del Concilio più che da questi dati statistici risulta dallo spirito con cui esso si è svolto. Spirito di fede incrollabile nella divina missione della Chiesa; spirito di umiltà per cui si riconoscono le umane deficienze registrate dalla storia e insieme si afferma la volontà di rinnovamento affinché la Chiesa sia sempre più conforme al disegno del suo divino Fondatore; spirito di amore per tutti gli uomini secondo l’esempio dato dal papa Giovanni XXIII, ideatore del Concilio.

«Così è stato operato il grande “aggiornamento” dottrinale, liturgico e pastorale, che lasciando intatti gli elementi essenziali voluti da Cristo, ha adeguato alle nuove esigenze dei tempi i modi concreti della presenza della Chiesa nel mondo. Il Concilio ha segnato la strada. Ora bisogna camminare in tale direzione. Un compito di immense proporzioni e di severa responsabilità incombe su tutte le componenti del popolo di Dio, sui pastori e sui fedeli. C’è bisogno di Vescovi santi, sapienti, zelanti, che come San Carlo Borromeo dopo il Concilio di Trento, si dedichino con tutte le forze a illustrare e applicare le acquisizioni del Vaticano II. C’è bisogno di santi e zelanti sacerdoti, che sono i primi collaboratori dei Vescovi. C’è bisogno della cooperazione di tutti i fedeli laici, dei quali il Concilio ha messo in evidenza la dignità, la funzione attiva e la responsabilità in ordine alla vita ecclesiale. Chiediamo al Signore la luce e la forza per corrispondere alla comune vocazione alla santità».

B) – Così da Nuovo Cammino del 6 dicembre 1962. Scrive, da Roma, a conclusione dei lavori della prima sessione conciliare, monsignor Antonio Tedde, vescovo di Ales-Terralba:

«… oggi, – a breve distanza dalla chiusura della prima sessione, e già spiritualmente in attesa della seguente sessione, l’una e l’altra incastonate tra ricorrenze care alla devozione alla Vergine Immacolata e da Papa Giovanni XXIII prescelte con affetto sereno che tocca le vette della semplicità e della fiducia – oggi è più agevole apprezzare la soprannaturale grandezza del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo e la sua provvidenziale incidenza nella storia della umanità, in un secolo in cui le conquiste della scienza e la voluttà di un sempre più vasto ed insaziabile benessere materiale hanno ubbriacato l’uomo di orgoglio.

«Forse, nei più vari livelli  intellettuali e sociali, vi è stata per un certo tempo la convinzione che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo sarebbe stato un grandioso e straordinariamente eccezionale spettacolo di rappresentanza di tutti i popoli, di tutte le razze umane in un insieme dei più contrastanti colori nella inquadratura tutta propria di S. Pietro e in Vaticano e di tutta la città di Roma che ospita un po’ in tutti i suoi affascinanti quartieri i 2500 Padri Conciliari.

«Uno spettacolo interessante, dunque, e senz’altro meritevole della massima attenzione, ma che non avrebbe dovuto né dovrebbe pretendere di disturbare la corsa dell’uomo al piacere, né la mal contenuta ambizione di predominio nel piccolo mondo individuale e nel grande mondo degli interessi e delle cupidigie nazionali e internazionali.

«Forse, nei più vari ambienti e ai più vari livelli intellettuali e sociali – anche negli ambienti cattolici – vi è stata per un certo tempo la convinzione che al grande storico spettacolo religioso-sociale dell’11 ottobre 1962, che per ore ed ore intense ha polarizzato l’attenzione del mondo intero – cristiano e non cristiano (sono partite da Roma in quel giorno per via telegrafica 405.000 parole e 5000 telegrammi per l’estero) – sarebbe succeduta per un breve tempo nell’Aula Conciliare, unica al mondo, – la maestosa navata centrale di S. Pietro in Vaticano – una elegante olimpiade di dialettica filosofico-teologica arricchita di tutte le sfumature della lingua latina parlata in un accento ed in una tonalità di fondo propri dei diversi gruppi linguistici, e poi lo storico avvenimento sarebbe stato consacrato ad accrescere i preziosi tesori degli Archivi Vaticani.

«Che questo fosse un diffuso stato d’animo, anche negli ambienti cattolici, e non solo a livello parrocchiale, lo abbiamo potuto e dovuto rilevare dalla incuriosita insistenza e impazienza con cui ci si chiedeva se i Padri del Concilio si fossero già sbrigati  ad approvare questa o quella riforma liturgica o se avessero già preso in esame qualche proposta, – come la foggia più o meno tradizionale dell’abito ecclesiastico – su cui si concentra l’interesse superficiale anche di tanti dei nostri buoni cristiani, che sfuggono tuttavia all’impegno di approfondire gli essenziali problemi dell’anima.

«Ed i termini non erano sempre sufficientemente rispettosi della nostra sensibilità di Padri del Concilio, che sanno e sentono di avere una pesante e precisa responsabilità di fronte alla storia ed innanzi tutto di fronte alle anime, di fronte alla Chiesa.

«Riteniamo di essere in grado di poter affermare che alla conclusione della prima Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II il mondo cattolico e il mondo non cattolico abbiano preso coscienza che la Divina Provvidenza ha segnato il nostro Concilio Ecumenico tra le grazie straordinariamente meravigliose che dispone per la salvezza dell’umanità, come pietre miliari lungo i secoli.

«Papa Giovanni XXIII, con uno di quei tocchi di Padre e di Maestro che gli sono propri, così individua l’ambiente storico del Concilio Ecumenico che abbiamo il privilegio di vivere: “Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa” (Giovanni XXIII, 11 ottobre 1962).

«Ed i Padri del Concilio così confermano il loro impegno di studio e di lavoro, al servizio dei popoli: “Ci sforzeremo di proporre agli uomini del nostro tempo integra e pura la verità di Dio affinché essi stessi possano comprenderla e liberamente accettarla. Consapevoli della nostra responsabilità di pastori, desideriamo ardentemente corrispondere alle esigenze di tutti coloro che cercano Dio ‘e di trovarlo, come a tastoni, quantunque non sia lontano da ciascuno di noi’” (Messaggio al mondo dei Padri Conciliari).

«I Padri del Concilio sanno che il Concilio Ecumenico, con tutto il complesso peso dei lavori, è un servizio che, per la voce e l’autorità del Vicario di Cristo, il Signore ha disposto per il bene dell’umanità intera, perché anche chi non ha la gioia della fede, anche chi ha disprezzato la fede, ne godrà i munifici provvidenziali benefici.

«Superato pertanto un primo stadio di carica psicologica a sfondo religioso ma superficiale, l’umanità si è trovata nell’attesa di ringiovaniti valori spirituali, con una fiducia, di cui, forse, non pensava di avere la capacità, perché assuefatta, avvilita e rassegnata alle delusioni insistenti, di cui i suoi grandi – gli arbitri, per elezione o per violenza, dei suoi destini – le sono puntualmente prodighi. Al dissopra e al di fuori delle piccole note del diario marginale del Concilio, che servono ad agevolare gli affaticati cronisti di tutti i giornali e valgono a sveltire gli articoli dei vari redattori, è da ritenersi che il Concilio Ecumenico nella coscienza dei più abbia preso il posto che ad esso spetta: il posto cioè del Maestro e dell’Amico che ha tutto da dare senza nulla chiedere in compenso, che ha da donare Verità e Amore, nella sempre giovane generosità della Grazia, di cui Cristo Gesù ha fatto materna dispensatrice la sua Chiesa.

«Ed il mondo ormai, fatto ardito di una fiducia spesso violenta, tutto attende dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Attende tutto. Attende la soluzione a tutti i suoi problemi spirituali e morali, civici, sociali, familiari. Attende la pace profonda delle coscienze, attende direttive vigorose per una vera, nuova e sempre necessaria ed attuale rinascita spirituale nella Verità che è Cristo, nella Giustizia che è Cristo, nella Carità che è Cristo.

«L’umanità attende tutto dalla Chiesa, attende tutto dal Concilio Ecumenico. La Chiesa di Cristo nella persona del Papa e di tutti i Padri Conciliari – tutti i Vescovi del mondo – intende rispondere a tanta fiducia. E Papa Giovanni XXIII così preveniva: “La Chiesa non ha assistito indifferentemente al mirabile progresso delle scoperte dell’umano ingegno, e non ha lasciato mancare la giusta estimazione, ma, pur seguendo questi sviluppi, non desiste dall’ammonire gli uomini affinché, ben al di sopra delle cose sensibili, volgano gli occhi a Dio, fonte di ogni sapienza e di ogni bellezza: e non dimentichino il gravissimo comando: ‘adorerai il Signore Dio tuo, e servirai a Lui solo’ (Matt. 4,10; Luc. 4,8) perché non succeda che il fascino fuggente delle cose visibili impedisca il vero progresso” (Giovanni XXIII all’apertura del Concilio).

«Ed i Padri del Concilio facevano proprio l’impegno del Vicario di Cristo. “Mentre speriamo che attraverso i lavori del Concilio splenda più chiara e vivida la luce della fede, aspettiamo un rinnovamento spirituale dal quale proceda anche un felice impulso che favorisca i beni umani, e cioè le invenzioni della scienza, i progressi dell’arte, della tecnica, e una più larga diffusione della cultura” (Messaggio dei Padri del Concilio).

«Impegno veramente ardimentoso, che serenamente misura come campo delle fatiche apostoliche il rapporto tra rinnovamento religioso e rinnovamento familiare; rinnovamento religioso e rinnovamento morale; rinnovamento religioso e rinnovamento civico; rinnovamento religioso e rinnovamento sociale; rinnovamento religioso e rinnovamento economico.

«Ma con coraggio forse nuovo, i Padri del Concilio affermano ancora nel passo citato, di voler fermare  la loro attenzione sul rapporto tra rinnovamento religioso e sano rinnovamento tecnico e scientifico. Né deve sorprendere che oggi si prenda coscienza su così vasta scala di riflessi nuovi profondamente vincolati e vincolanti, alla luce della grazia, del progresso scientifico nella vita dell’uomo, riflessi che diventano problemi morali e sociali. Lo stesso progresso scientifico è dono di Dio che ha dato all’uomo l’intelligenza con tutte le ampie possibilità, di cui l’umanità oggi fa una larga esperienza.

«Ma ogni vero progresso deve tendere al bene dell’uomo, cui Dio ha dato l’uso delle cose create in ordine al fine supremo. Se il progresso non conduce al bene è già male; e se il progresso tecnico scientifico viene aggiogato al carro della morte, il progresso tradisce l’uomo nel suo stesso orgoglio.

«I Padri del Concilio sanno che il Concilio deve offrire ed offrirà il rimedio ai mali cronici ed ai mali nuovi, ai mali presenti della umanità di oggi. Hanno accettato con fiducia serena questo impegno i Padri del Concilio, perché sanno che il Signore, per le comuni intense preghiere quotidiane, in questo tempo sarà più largo di grazie.

«I Padri del Concilio, infatti, lavorano e pregano con una particolare intensità così da poter definire, sotto questo aspetto, il Concilio Ecumenico un singolare Corso di Esercizi Spirituali.

«E’ una visione tutta nuova ed eccezionale la S. Messa quotidiana, celebrata in apertura dei lavori di volta in volta anche nei vari riti di cui è particolarmente ricca la Chiesa Cattolica Orientale. E’ tutta la Chiesa Docente che prega ad invocare l’assistenza del Signore, perché la Verità sia l’unica via per sé e per tutte le anime.

«I Padri del Concilio pregano coscienti delle proprie responsabilità, che la grazia del Signore renderà feconde di bene per la società. E coscienti delle proprie responsabilità, i Padri del Concilio affermano ed esprimono la loro serena fiducia nella confortevole luminosa assistenza della Vergine Immacolata, alla quale – insieme con S. Giuseppe – la pietà tenerissima di Papa Giovanni XXIII ha affidato il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, che è stata particolarmente presente nella preparazione del Concilio, come oggi nello svolgimento dei lavori.

«Riteniamo di poter dire che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo è una grazia straordinaria, singolarmente preziosa, che la Vergine della Rivelazione – per la salvezza del mondo e per il risveglio e la conservazione della fede in mezzo al popolo cristiano – ha ottenuto alla umanità ed alla Chiesa di Cristo dalla onnipotente divina misericordia, dall’amore della SS. Trinità per la umanità.

«Viviamo un mistero di grazia, venerandi Confratelli e Dilettissimi Figli, di cui solo in Paradiso comprenderemo la grandezza misericordiosa. Opportunamente, Papa Giovanni XXIII apriva il cuore degli uomini alla più grande fiducia, in occasione dell’apertura del Concilio: “Illuminata dalla luce di questo Concilio, la Chiesa, come è Nostra ferma fiducia, si ingrandirà di spirituali ricchezze e, attingendovi forza di nuove energie, guarderà intrepida al futuro. Infatti, con opportuni aggiornamenti, e con il saggio ordinamento di mutua collaborazione, la Chiesa farà sì che gli uomini, le famiglie, i popoli volgano realmente l’animo alle cose celesti” (Discorso di S.S. Giovanni XXIII all’apertura del Concilio).

«Prepariamoci, con cuore semplice e con sincerità di buoni propositi, a vivere intensamente, con particolare attenzione alle nostre personali responsabilità, i frutti salutari del Concilio Ecumenico Vaticano II. Facciamo nostra la fiducia del Vicario di Cristo.

«Lavorare e soffrire nella carità di Cristo, nella fiducia filiale nella Vergine Immacolata, Regina degli Apostoli e Regina del mondo, è la missione che tanto ci avvicina a Gesù Redentore.

«E con questa fiducia domandiamo al Signore, per l’intercessione della Vergine Immacolata, la più bella benedizione che ognuno desidera e che Noi vi impartiamo con tutto il cuore. Nei Cuori SS.mi di Gesù e di Maria».

C.1) – Così infine da L’Ortobene del 10 novembre 1962, mentre è in svolgimento la prima sessione dei lavori. Scrive monsignor Giuseppe Melas, ordinario di Nuoro:

«Molti di voi hanno visto la Basilica di S. Pietro, la più grande chiesa del mondo; ma è davvero impressionante vederla ora trasformata in un’unica immensa Aula Conciliare, con i seggi simmetricamente disposti nella navata centrale e distribuiti a settori a destra e a sinistra. Ogni settore è diviso dall’altro a mezzo di una scalinata che consente l’accesso al posto assegnato a ciascuno dei Padri. Ogni settore comprende o 54 o 75 posti secondo che è appoggiato a uno dei giganteschi pilastri della Basilica oppure si addentra alquanto nel vuoto delle immense arcate. Ogni posto comprende un sedile coi braccioli, un genuflessorio, un leggio per scrivere: e tutti e tre sono così sistemati che si possono sollevare o abbassare in modo che è possibile, nel breve spazio, stare in piedi, o seduti per leggere o scrivere, o inginocchiati; e ciascun posto ha pure a disposizione una matita a mina magnetica che serve per apporre la firma nella scheda di presenza. Ogni volta infatti che c’è adunanza viene distribuita un’apposita scheda che i presenti devono firmare e poi consegnare al personale addetto. In questa scheda sono segnati – dattiloscritti! – i dati anagrafici di ogni Padre Conciliare, ed i medesimi sono anche perforati in modo che dopo la raccolta vengano passati agli apparecchi meccanografici che in pochi minuti ne fanno lo spoglio e si viene così a sapere rapidamente il numero dei Padri presenti in ogni seduta. Tutti i posti sono foderati in velluto viola nel genuflessorio, nel sedile, nella spalliera e ciascuno ha un numero che è progressivo ed è assegnato ai Padri secondo la precedenza canonica e cioè in base  alla data ufficiale di nomina di ciascuno di essi. Accanto al Vescovo di Nuoro, che fu nominato il 31 gennaio 1947, si trovano gli altri Vescovi dello stesso anno, o del 1946 o del 1948, e cioè poco prima, poco dopo di lui. Il mio numero di posto, per es., è il 450; di fianco a me, a sinistra c’è il Vescovo di Altoona Johstown, suffraganeo di Filadelfia, negli Stati Uniti, ed ha il n. 449 perché fu nominato l’11 gennaio 1947, e immediatamente prima, al n. 448, c’è il Vescovo di Lucknow, in India, nominato il 12 dicembre 1946, e subito dopo di me, al n. 451, c’è Mons. Alfredo Ancel, Vescovo titolare di Mirina e Ausiliare dell’Arcivescovo di Lione in Francia, che fu nominato il 17 febbraio 1947. E poi continuando, a distanza di qualche posto, sono vicini a me un Vescovo domenicano del Congo, un altro del Brasile, un terzo di Hong Kong in Cina. Con questi perciò m’incontro tutti i giorni che c’è seduta e siamo diventati fraternamente amici e conversiamo quando si arriva, prima dell’inizio delle adunanze, e alla fine, quando stiamo uscendo. Quanto vi ho detto riguarda soltanto una metà dell’Aula Conciliare, quella destra a partire dalla Confessione, al lato cioè del Vangelo; alla parte opposta c’è un’identica numerazione parallela, che si chiama sinistra, al lato cioè dell’Epistola.

«Ogni giorno di “Congregazione”, alle ore 9 c’è la S. Messa celebrata dai Vescovi più disparati del mondo e anche in diversi riti; ed è mirabile lo spettacolo della sacra funzione quando a rispondere al Celebrante è una massa imponente di Vescovi che sono non meno di 2300 e qualche giorno 2400 o anche 2500. Pensate al Kyrie, o al Gloria, al Sanctus, all’Agnus Dei recitato all’unisono da questo coro eccezionale di voci! Un giorno, il 24 ottobre, la Messa fu celebrata in rito orientale bizantino, e in lingua greca, ed era gustosissimo sentire la gloriosa lingua dei greci con inflessioni nuove; il Credo è detto al plurale (Pisteccomen eis ena Theon… credimus in unum Deum…) e l’Amen  diventa Amin!….

«Bellissima e solenne la funzione quotidiana dell’intronizzazione del Vangelo che viene portato processionalmente mentre l’immensa assemblea canta il Laudate Dominum, alternando i versicoli col Christus vincit!

«Indescrivibile l’aspetto della solennissima Aula con i numerosissimi Vescovi, tutti indossanti l’identica divisa (sottana e fascia, rocchetto, mantelletta, croce pettorale e berrettino) ciascuna modellata alla stessa foggia, ma con una grande varietà di colori, in cui prevale più numeroso il rosso paonazzo, ma con le frequenti varianti del bianco dei Mercedari e Cistercensi; del marrone dei Cappuccini, del cinericcio dei Minori Francescani, del nero degli Agostiniani, del bianco e nero dei Domenicani…! Si notano i Vescovi Missionari dalla caratteristica barba, e risaltano immediati i volti neri o gialli, o intensamente e variamente bruni dei Vescovi africani, indiani, cinesi, giapponesi… Veramente la divina Sposa di Cristo è “circondata di varietà”! La sensazione che si sente immediata alla vista di questa accolta straordinaria di Vescovi è precisamente questa: unità e varietà! La si nota quando i Padri s’incontrano all’arrivo in Piazza S. Pietro quando entrano nella Basilica e occupano il posto a ciascuno assegnato, quando sfollano! La si nota soprattutto durante lo svolgimento dell’assemblea che va dalle 9 alle 13 e talvolta anche più oltre! La trattazione dei vari argomenti in discussione dura quasi sempre circa 3 ore (dalle 9,30 alle 12,30); ogni volta parlano da 25 a 35 Padri, e a ciascuno è fissato un limite di circa 10 minuti di tempo per il proprio intervento. Posso assicurarvi che si tratta di discussioni interessantissime e negli Oratori che intervengono è facile ammirare competenza, saggezza, zelo delle anime. Lo stesso argomento viene sviscerato con profondità e vastità, ed esaminato in tutti i suoi svariati aspetti, e ciascuno dei Padri dà il suo apporto, scegliendo un raggio della molta luce che illumina i vari problemi! E tutti i Padri Conciliari parlano la lingua latina; ed è sorprendete constatare questo elemento di unità che è dato dall’uso dello stesso idioma, e noi italiani sentiamo ammirati la gloriosa lingua di Roma parlata bene da tutti i Padri, anche quando meno si potrebbe credere, ed io non vi nascondo che seguo con particolare gusto e curiosità quando parlano i Vescovi Africani (per es. del Tanganica o del Congo), di Formosa, dell’India, del Giappone! Parrebbe incredibile, ma è stupenda realtà constatare che il latino sia parlato da tante labbra diverse e così lontane nello spazio, e così aliene come abitudini di mentalità, e che questa lingua si presti ad esprimere qualunque concetto e sia capace di essere usata anche nelle più ardue e complesse discussioni! Come non ringraziare il Signore e compiacersi che la S. Chiesa sia così grande e gloriosa?!

«Naturalmente anche nel latino resta un’insopprimibile varietà dovuta alla pronunzia e alla cadenza che sono proprie di ogni popolo! Del resto anche tra noi italiani non esiste forse questa varietà? Chi è alquanto esperto distingue subito un toscano da un lombardo, un romano da un napoletano… e tanti riconoscono noi sardi quando parliamo l’italiano per un particolare timbro che diamo alla nostra pronunzia! Perciò anche al Concilio è ben facile riconoscere un francese per la caratteristica tipica dell’ “r” e per l’accentuazione della parola, o un tedesco che vi dice “Ghermania”, “Evanghelium”, “Reghina Anghelorum”…, o lo spagnolo che ti pronunzia “s” la “c” e ti dice “Consilium” invece di “Concilium” e ti spezza la parola “ag-nus” e “dig-nus” invece di agnus e dignus, e ti riduce a “chi” o “che” il dittongo “qui” e “que”, dicendo “ubiche” invece di “ubique” e “cum chibus” invece di “cum quibus” ecc. o gli inglesi e gli americani che ti fanno sentire abbondantemente liquidissima la già liquida “l”.

«Si tratta però, come vedete, di varianti non essenziali, che non disturbano affatto la comprensione delle parole e di quanto esse vogliono esprimere. E tutti ringraziamo il Signore e godiamo perché nel Concilio è stata superata e vinta Babele che aveva confuso le lingue rendendole incomprensibili!

«Per questa volta basta così; in seguito, se avrò tempo, mi riservo di dirvi qualche altra notizia. E non vorrei che quanto vi ho detto fosse considerato solo una curiosità; esso vuole dirvi quanto è nobile e grande la S. Chiesa di cui siamo figli e come dobbiamo esserle affezionati e obbedienti, attraverso la Diocesi a cui apparteniamo che è parte vivente della Chiesa cattolica, cioè universale, sparsa nel mondo.

«Vi raccomando tutti al Signore, domando un ricordo nella vostra preghiera e vi benedico cordialmente».

C.2) – Ed ancora, in data 21 novembre, festa di Nostra Signora delle Grazie, così scrive monsignor Melas. Cf. L’Ortobene del 10 dicembre 1962:

«Più di una volta, e potrei dire giornalmente, ripenso a Voi e vorrei che poteste vedere lo spettacolo veramente ammirabile della Basilica durante ciascuna delle Congregazioni Generali. Dinnanzi ai miei occhi stanno i 18 settori di un lato della Basilica, con oltre 1100 Vescovi ed altrettanti ne stanno dalla parte opposta dove mi trovo io. Un silenzio solenne domina nell’ora della preghiera e del raccoglimento durante la celebrazione della S. Messa, e l’Aula si anima e palpita e vibra quando si prega o si canta tutti insieme, specialmente quando si levano le solenni note gregoriane del Credo. E’ la Chiesa docente di tutto il mondo raccolta nella sua quasi totalità; da anni, celebrando la Santa Messa, giunto al Canone, fermo particolarmente la mia attenzione in quel punto in cui si prega il clementissimo Padre Celeste che si degni di accettare il Santo Sacrificio soprattutto e prima i tutto per la S. Chiesa che supplichiamo di “pacificare, custodire, adunare e governare in tutto il mondo” insieme col Sommo Pontefice e col Vescovo della Diocesi, “e con tutti coloro che hanno la retta dottrina e coltivano e alimentano la fede cattolica e apostolica”: in quest’ultima espressione s’intendono ricordare specificamente i Vescovi ai quali in modo speciale compete l’incarico di “coltivare” ed alimentare la vera fede in tutto il mondo. Quel richiamo che ogni giorno riporta alla mente i Successori degli Apostoli sparsi nelle varie Diocesi della terra, diventa vivissimo e attuale nel Concilio quando Essi non sono solamente ricordati e pensati ma sono veramente presenti e l’occhio li può abbracciare e contemplare con infinita compiacenza!

«Tra questo ingente numero di Vescovi, che solo il Concilio consente di raccogliere in maniera così eccezionale, ve ne sono di quelli che più attirano la nostra attenzione: sono quelli delle nuove Diocesi, da poco sorte nei luoghi di Missione, in Africa e in Asia, e specialmente quelli provenenti dalla Chiesa del Silenzio, quelli che sono potuti venire, che hanno lasciato venire! Guardiamo tutti con venerazione il Cardinale Wyszynski, Arcivescovo di Varsavia, in Polonia, che fu per vari anni in prigione per la fede e che tuttora deve combattere per difendere i diritti dei cattolici continuamente insidiati da un regime di atei e materialisti. Il 12 novembre ho potuto baciare la mano a Mons. Cirillo Zoharabian, Vescovo dell’Armenia, che ha subito ogni sorta di tormenti e gli è mancata solo la morte perché fosse un vero martire; cammina zoppicando e vengo a sapere che i persecutori gli diedero una volta trecento colpi di nervo di bue ai piedi, è mutilato alle dita delle mani, respira a fatica e mi spiega che ha soltanto un terzo di polmone!… Gli domando gli anni ed egli mi chiede quanti io gliene do; gli dico che mi sembra che abbia 70-75 anni. “E invece ne ho 82”, mi risponde. Gli faccio l’augurio sardo “a chent’annos”, e glielo spiego, e mi risponde furbescamente sorridendo: “così poco?!” Preferisco l’augurio greco che si limita a un solo anno e che viene ripetuto ogni anno: arrivederci all’anno venturo! Mi separo commosso da questo vero campione della fede e gli prometto che racconterò questo incontro ai figlioli della mia Diocesi. Cosa siamo noi in confronto?…

«Il 4 novembre, durante il ricevimento offerto dal Comune di Roma in Campidoglio, ho potuto conoscere un Vescovo della Lettonia, e mi duole di non ricordarne il nome, il quale attualmente si trova in Belgio, espulso dalla sua patria; egli è stato tanti anni in Siberia e fu condannato ai lavori forzati, sempre in odio alla fede; ora lavora tra gli emigrati ed espulsi del suo stesso paese che si trovano all’estero, e solo raramente riesce a sapere qualche notizia dei suoi famigliari! Gli ho assicurato che noi preghiamo sempre per loro e per la Chiesa del Silenzio e mi ringraziava!

«In occasione del ricevimento offerto dal Presidente della Repubblica ai Padri Conciliari di tutto il mondo, e ne erano presenti circa 1600, sulla soglia di una porta incontrai un Vescovo dell’Oriente, che poi seppi essere “ortodosso”, e gli cedetti il passo per riguardo; egli si schermì e voleva fare altrettanto con me volendo che passassi io per primo; lo presi allora sotto braccio dicendogli: “andiamo insieme”; m’accorsi che non capiva l’italiano e gli rivolsi la parola in latino, come sogliamo fare spesso quando incontriamo un Vescovo che certamente appare come straniero; egli però non capiva neppure una parola, nemmanco in latino; parlammo in francese e seppi così che egli era Vescovo copto che ha la residenza al Cairo in Egitto e che estende la sua giurisdizione anche nel Sudan e in parte dell’Etiopia. E’ a Roma tra gli “Osservatori” delle chiese separate invitato dall’apposito Segretariato.

«Incontrando ogni tanto e numerosi i Vescovi non italiani e specialmente quelli che il colore del volto indica senz’altro come asiatici o africani vien voglia di avvicinarli per fare in qualche modo la loro conoscenza; ma ciò non sempre è facile anche per la mancanza del tempo. Attaccando discorso con due Vescovi negri vengo a sapere che sono del Madagascar, ed essi apprendono da me che sono della Sardegna; dico loro che nel Madagascar si trovano diversi Missionari sardi, ed essi spontaneamente ed immediatamente mi fanno i nomi di Papoff e di Cossu. Ciò mi conforta perché mi conferma che i due nostri conterranei sono davvero noti anche a questi Prelati. Papoff è di Cagliari e Cossu di Bitti, e sono entrambi Padri Gesuiti. Assicuro di conoscerli entrambi e comunico che recentemente è partito anche un altro Padre della nostra Diocesi, il P. Turtas anch’egli di Bitti.

«I Vescovi delle Missioni e dell’America latina domandano tutti di avere più Sacerdoti e ne chiedono a noi italiani perché ne mandiamo loro; e resto impressionato quando faccio con essi il paragone delle nostre Diocesi e delle loro che sono più vaste, hanno più grande popolazione, e più Parrocchie, ma scarsissimo il Clero!

«Ho incontrato varie volte Sua Eminenza il Card. Fossati e Sua Eccellenza Mons. Beccaro, ai quali ho potuto esprimere la simpatia ed il ricordo della Diocesi di Nuoro da loro governata in passato, ed anche essi vi posso assicurare che non dimenticano la loro prima Diocesi in Sardegna.

«Questa prima fase del Concilio Ecumenico sta avvicinandosi alla conclusione ed io penso con piacere di poter tornare presto in Diocesi; so che Voi non cessate di pregare per la buona riuscita di questi lavori conciliari e ve ne ringrazio, mentre vi raccomando anch’io al Signore, e benedico cordialmente».

Nota finale. Un appunto conclusivo debbo consentirmelo, per lealtà verso il lettore di queste pagine. Riferendo degli arcivescovi Carta e Saba – il primo successore del secondo sulla prestigiosa cattedra episcopale di Sassari – e richiamandone la comune provenienza serdianese, non ho potuto negarmi di ripensare a don Arrigo Miglio che perse clamorosamente l’occasione di onorare quella Chiesa monumento, che ospita entrambe le salme dei presuli, e quella Chiesa «di pietre vive» in cospicua assemblea  quando, insediandosi in quella parrocchiale don Mario Cugusi, egli preferì andarsene a vedere una partita di calcio, nella tribuna VIP di uno stadio interdetto da magistratura e prefettura, accettando poi che il giornale diocesano celebrasse le pratiche scaramantiche del presidente del Cagliari scambiandole per virtuosi adempimenti in onore della Vergine Maria. Quando la grande storia costruita con fatica viene umiliata dal confuso capriccio d’un momento

 

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