Qualche idea sulla questione sarda


Il deputato del PD Guido Melis partecipa a una manifestazione sindacale.


di Guido Melis, deputato del PD (l’articolo è tratto dal sito di Sardegna Democratica, dove è stato pubblicato il 15 giugno 2001)

Qualche idea sulla questione sarda, i cambiamenti in atto, i compiti del Pd. Contributo a una discussione. Esiste ancora una questione sarda? E quali sono i suoi tratti distintivi nella fase storica apertasi con gli anni Duemila? Per rispondere a queste due domande occorre, innanzitutto, anteporre una breve premessa.

Una lunga fase storica, iniziata nel dopoguerra, proseguita negli anni delle grandi lotte per la Rinascita, maturata pienamente nel periodo dell’industrializzazione per poli e del radicamento in Sardegna dell’industria avanzata (particolarmente della chimica e della metallurgia), volge con tutta evidenza alla fine. Il sistematico processo di smantellamento dell’industria cui abbiamo assistito più o meno impotenti in questi ultimi anni lo dice con chiarezza. Tramonta, pur nella disperata resistenza degli ultimi nuclei della classe operaia sarda, un intero sistema economico, un’ipotesi di sviluppo, forse anche una cultura basata sull’industria moderna e sulla strategica centralità della fabbrica.

Il blocco sociale che negli ultimi anni Sessanta e nel decennio dei Settanta aveva impresso una radicale accelerazione al processo di modernizzazione della Sardegna (il blocco – per semplificare – tra le tute blu e i nuovi ceti piccolo-medio borghesi del terziario, cresciuti nell’ambito dell’epocale spostamento dalla Sardegna rurale a quella urbana) tende a disgregarsi, sotto i colpi di una crisi economica tra le più dure e crudeli degli ultimi decenni. Quel blocco aveva consentito – lo ricordo solo di sfuggita – il rovesciamento degli equilibri politico moderato-conservatori del primo dopoguerra, aveva segnato la piena leadership delle città sulla campagna, aveva fortemente nazionalizzato la vita quotidiana dei sardi, accompagnandosi a più complessi e pervasivi processi di conquista culturale delle zone interne. In una certa fase suscitando contraddizioni anche profonde (delle quali era stata uno dei sintomi indiretti l’insorgenza della criminalità basata sul sequestro di persona), ma alla fine consolidandosi e creando in un certo senso un equilibrio sociale e persino culturale.

La crisi di quell’ipotesi di aggregazione sociale, di quell’idea di Sardegna anche, è oggi pienamente in atto e costituisce il contesto – per molti versi drammatico perché apparentemente senza via d’uscita – nel quale attualmente viviamo e ci troviamo ad operare. Mancando l’asse industriale, spazzato via dalla grande crisi di ristrutturazione capitalistica che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e che ha dimensioni universali, tali da non poter essere di fatto governata a partire dall’ambito locale, l’assetto che ha retto bene o male per lo meno per 30/40 anni va in frantumi. Producendo episodi di resistenza anche eroici ma isolati. E suscitando un malessere profondo, che stenta però a tradursi in forme organizzate e consapevoli di alternativa politica.

Su questo punto vorrei soffermarmi un momento, prima di proseguire nell’analisi del momento attuale. Ho detto malessere, ed ho accennato alla sua sostanziale incapacità di approdare a forme esplicite di resistenza politica. Ciò si deve anche alla trasformazione in atto, anche in Sardegna, nelle classi sociali e alla egemonia culturale esterna che, anche in Sardegna, si è affermata sul complesso indistinto della società locale ad opera di grandi concentrazioni di potere mediatico capaci come mai era prima avvenuto di veicolare contenuti culturali e politici imposti dall’alto. Sono questi due fattori strutturali, che occorre tenere ben presenti.

Le classi sociali si sono in questi ultimi decenni progressivamente sgretolate, perdendo i connotati unitari che un tempo le caratterizzavano fortemente e assumendo l’aspetto di aggregati indistinti e confusi di interessi di gruppo o individuali, privi di una sicura consapevolezza della propria identità, mutevoli nella collocazione politica, esposti alla influenza di culture di massa elaborate altrove e imposte attraverso la violenta offensiva dei media. Il blocco popolare, se così vogliamo chiamarlo, o anche – se preferite – il “popolo sardo” (espressione che non mi è molto congeniale, ma che esprime bene l’identificazione dei sardi, in certi frangenti della loro storia anche recente, in un destino comune) non c’è più. Esiste una disgregazione sociale e culturale nella quale tornano in evidenza le tradizionali difese dei gruppi forti (a cominciare dalla rete familistica, che in Sardegna è sempre stata molto attiva e che oggi, dinanzi alla crisi, torna ad essere l’unico riparo possibile).

Oppure, nelle classi dirigenti, l’adesione alla politica come mezzo per realizzare interessi personali e di gruppo, o la partecipazione alla rete solidaristico-massonica che costituisce oggi, in assenza dei partiti organizzati su basi generali, il vero collante degli interessi forti locali (se ne avvertono gli effetti alla Regione).

Inutile precisare che, in un contesto simile, chi è debole, chi è fuori dalla rete di protezione degli amici e sodali, è esposto a processi di impoverimento economico e di emarginazione sociale molto radicali. Sicché la società sarda tende a disporsi secondo la forma della clessidra: un’aggregazione in alto di interessi forti, anche inseriti nella sfera d’affari delle cricche nazionali protette dal governo Berlusconi; e una dispersione di “vinti” in basso, dove sono in atto processo di proletarizzazione molto evidenti.

Mutano così, senza che quasi ce ne accorgiamo, i termini tradizionali della questione sarda. La scomposizione dell’equilibrio precedente prelude a un nuovo riassetto? E su quali basi?
Intanto constatiamo che, nel passaggio dalla fase, breve ma densa di cambiamenti negativi degli ultimi dieci anni, la fase – chiamiamola così – di Renato Soru, a quella attuale, la Sardegna è scivolata, come dicono tutti gli indici economici, nel gruppo di coda delle regioni italiane. Di più: ha perduto la capacità di interloquire sia con il governo di Roma (Soru aveva restituito ai sardi una certa identità autonomistica, che sembra essersi però tanto rapidamente smarrita da far dubitare della sua reale consistenza), sia con i grandi interessi multinazionali che dominano e determinano la nostra economia.

Chi ha seguito il caso Euroallumina, o quello Alcoa, ma ancor di più il caso Vinyls, conclusosi in pratica, dopo la lunga e simbolica occupazione dell’isola dell’Asinara, con l’incontro finale al Quirinale tra gli operai e il presidente Napolitano, sa di cosa parlo. Ma anche nella vertenza di quest’estate dei pastori (anch’essa conclusa, ma con ben altra visita, quella a Franco Briatore: desinit in piscem, dicevano i latini) si è potuto vedere, in evidenza direi quasi palmare, quella che è la tragica domanda che tutti ci poniamo: come si può, se si è deboli economicamente e periferici geograficamente, contrastare la deriva imposta da centri decisionali che ci sono estranei e sui quali non siamo in grado di influire? Come si fa a determinare la propria storia partendo dal basso e dalla periferia, quando i grandi flussi decisionali si svolgono in alto e in una rete di centri dalla quale, a quanto pare, siamo esclusi?

Con Soru una certa iniziativa politica (direi politico-culturale, perché si esprimeva secondo linguaggi e modalità comunicative molto peculiari, anche simboliche) poté in parte contrastare questa condizione di inferiorità, bucando il muro di gomma dell’informazione e correggendo così in parte l’emarginazione. Oggi con Cappellacci siamo senza voce, e quindi condannati a subire.
Ma è, come spesso accade, più in profondo che dobbiamo interrogarci, se vogliamo spiegare l’afasia della Sardegna nella fase attuale.

Manca oggi in Sardegna, manca a noi come forze politico-culturali che ci proponiamo di trovare una soluzione alternativa alla emarginazione, una teoria adeguata della questione sarda; e manca di conseguenza una politica che quella teoria traduca in azione capace di suscitare consenso. Di fronte al processo di disgregazione in atto, noi per primi non sappiamo che dire, salvo la difesa dell’esistente (sacrosanta, ma destinata ad esaurirsi inesorabilmente).

Una teoria che si radichi nell’analisi sociologica di quel che sta accadendo. Proviamo ad allineare alcuni dati: una forte dinamica negativa sul piano demografico, con conseguente accelerazione dei processi di spopolamento; una polarizzazione nei centri urbani maggiori e nei relativi hinterland con l’effetto “ciambella” (tendenza della popolazione e delle attività a disporsi lungo le coste, con spopolamento delle zone interne); una crisi irreversibile dell’economia industriale; una sofferenza strutturale e probabilmente non contingente del modo di produzione agro-pastorale, con conseguente ulteriore degrado delle campagne; la tendenza a crescere (e non a diminuire) dei vincoli dell’insularità; lo spostamento ancora più accentuato di quanto già non accadesse dei centri decisionali fuori della portata dei poteri politico-amministrativi della Regione; l’accentuarsi dell’economia assistita, in tempi nei quali le risorse dei bilanci pubblici tendono a diminuire verticalmente.

Come si risponde a questo quadro desolante di tendenze negative in atto? Provo, scusandomi dello schematismo, a dare qualche risposta, necessariamente generica. Intanto con un grande, consapevole sforzo culturale, esattamente come è sempre avvenuto in frangenti simili nella storia sarda passata (ad esempio come avvenne nella stagione della Rinascita).

Da quanto tempo la cultura sarda nel suo insieme, i centri di elaborazione universitari e non, il complesso delle istituzioni culturali, ripete la stanca lezione appresa negli anni Sessanta? Fate una prova, anche banale. Scorrete la bibliografia degli ultimi 5-10 anni sulla Sardegna. Le citazioni stesse, i libri e gli autori cui si fa riferimento, datano a 50, 60, 70 anni fa. Cosa sta accadendo oggi, in termini di spostamento dei redditi, di egemonia tra aree geografiche, di rapporto città-campagna, di poteri forti nella Sardegna contemporanea? Lo sappiamo, ma impressionisticamente; in forma approssimata. La politica della Rinascita, qualunque giudizio ne vogliamo dare oggi retrospettivamente, non ci sarebbe stata senza la cultura della Rinascita, senza i Pigliaru, i Michelangelo Pira, i Renzo Laconi, i Paolo Dettori. Dov’è la cultura della nuova Rinascita? Dove sono gli eredi di quella tradizione intellettuale?

Qualche tema, alla rinfusa, come posso e come so.

Si può puntare ad un riscatto pieno delle zone interne? Ad una alternativa all’effetto ciambella (sviluppo sulle coste, abbandono del centro), che Emiliano Deiana ha efficacemente indicato qualche settimana fa come il vero cuore del problema sardo? Invertire la tendenza alla inedia demografica? Rivitalizzare territori abbandonati e desertificati in questi anni?

Si può (e la cosa va di pari passo alla prima, che ho appena citata) invertire la fuga dei cervelli, l’esodo dei laureati sardi o dei ragazzi non ancora laureati verso l’Italia del Nord e l’Europa? Puntando sul sistema universitario sardo? Inventando altri centri di eccellenza per la ricerca e l’elaborazione? Promuovendo vasti movimenti di giovani sardi verso i centri europei e mondiali di innovazione e di elaborazione (ma garantendone la ricaduta nell’isola, però: ciò che ad esempio non sempre avviene con il pur positivo master and back).

Una nuova politica regionale dell’istruzione e della cultura, accompagnata da una politica delle opportunità e dell’innovazione che privilegi le zone interne, individuando attività anche nuove, legate all’ambiente, alla razionalizzazione agricola, alla modernizzazione anche nei comparti chiamiamoli così tradizionali, potrebbe fare molto. Una proposta formativa in questa direzione anche. Soru ne diede una prima, precisa esemplificazione. Ci si può muovere su quella linea, correggere gli errori, rilanciare l’eredità positiva. Ma ci vuole consapevolezza politica.
Può darsi (dico può darsi) che tutto ciò si inquadri in un tipo di scelta produttiva nuova (la cosa può in parte chiamare in causa la cosiddetta chimica verde: sulla quale, relativamente a Porto Torres, sarà bene però vigilare con attenzione, per accertare quanto di realistico sia contenuto nell’attuale proposta dell’Eni-Novamont). Può darsi che si possa puntare su industrie di terza e quarta generazione, legate all’ambiente, su quella che già molti anni fa chiamavamo la Silicon Valley sarda. Può darsi. E’ una prospettiva sulla quale lavorare.

Introduco un secondo aspetto, che mi sta molto a cuore. Possibile che la rivoluzione che ha preso l’avvio in Nord Africa, a pochi chilometri dalle nostre coste, non profili nuovi scenari anche per la Sardegna? Una politica presbite, non miope, dovrebbe poter intravedere le opportunità che si aprono: flussi migratori più intensi, scambi economici, contaminazioni culturali e persino etniche. Forse l’inversione della deriva alla decrescita demografica attraverso processi di incrocio con altre componenti e diverse etnie. Tutto ciò presuppone una “politica mediterranea” della Sardegna: intendo una proiezione dell’economia sarda verso il Nord Africa, una intensificazione degli scambi economici e culturali verso quei Paesi oggi giunti forse al bivio di un diverso sviluppo, una capacità di ragionare nel quadrante vasto del Sud d’Europa, tenendo d’occhio le istituzioni dell’Unione europea più di quanto oggi non si sia stati capaci di fare.

E naturalmente una politica dell’accoglienza verso i flussi migratori futuri, che deve articolarsi in una iniziativa politica verso quelli già insediatisi intanto in Sardegna. Esiste oggi una consistenza presenza in Sardegna della comunità romena, non solo negli ovili sardi. Perché non prendere le mosse da qui per una politica di integrazione con quel Paese? Per una serie di iniziative congiunte in settori di reciproco interesse?

C’è poi tutto l’enorme campo, ancora solo in minima parte valorizzato, del grande patrimonio naturalistico e ambientale della Sardegna. In questo settore politiche virtuose (ma ispirate allora innanzitutto ad una più rigida tutela dell’ambiente e del paesaggio) potrebbero innescare meccanismi nuovi, nella direzione di una piena valorizzazione dell’immagine della Sardegna come scrigno ambientale e naturalistico d’Europa. Ciò comporta però una direzione politica più cosciente, strumenti normativi più incisivi (ad esempio in tutto il vasto campo della valorizzazione del patrimonio naturalistico della Sardegna interna), un coinvolgimento delle comunità e delle loro rappresentanze istituzionali.

Infine (ma si potrebbe continuare a lungo) qual è la forma istituzionale, qual è il livello di concentrazione di poteri necessario per realizzare questi obiettivi? Quest’ultimo punto è molto delicato, perché circola, sia pure minoritariamente in Sardegna, la ricetta consolatoria tipica di tutti i nostri momenti di crisi: l’indipendentismo, l’idea mitica della Sardegna-nazione (e non nazione fallita, come lucidamente vedeva Lussu, ma nazione operante, nelle forme istituzionali della statualità).

Questa ipotesi, per quanto di nicchia, poggia sulla giusta valutazione dell’inadeguatezza del vecchio patrimonio ideologico dell’autonomismo sardo a fronteggiare i grandi mutamenti in atto nell’epoca della globalizzazione: non basta più, cioè, la vecchia idea della rivendicazione autonomistica come richiesta di delega di poteri da parte dello Stato, nel quadro dell’unità nazionale e della vecchia statualità.

Ciò che ha prodotto la crisi di quella ideologia (che è stata, nel bene e nel male, propria dell’intero fronte dei partiti democratici dal 1945 ad oggi) è il radicale mutamento degli equilibri interistituzionali (non solo in Italia) e lo sviluppo tumultuoso e per certi aspetti incontrollabile dell’economia della globalizzazione, cioè di un sistema di interrelazioni in primo luogo economiche prive di un baricentro e di confini determinati, tendenzialmente anarchiche, dominate da interessi a dimensione non solo plurinazionale ma planetaria.

Gli Stati nazionali, pure rilanciati in parte dalle necessità contingenti delle politiche anti-crisi (stanno nascendo dappertutto un neo-statalismo e un neo-centralismo dei quali è in Italia un esempio la politica di Tremonti), tendono ad attenuare il protagonismo esercitato nel corso degli ultimi due secoli. In luogo dei rapporti bilaterali che caratterizzavano lo scenario precedente (bilateralismo tra Stato e Stato, bilateralismo nei singoli Stati tra centro e periferia) si afferma sempre di più la struttura della rete, cioè di un intreccio interistituzionale di poteri, fra di loro in connessione costante, la cui dimensione territoriale costituisce spesso una variabile indipendente rispetto alla loro incisività sui nodi della rete stessa. Detto in parole più semplici, le sorti della Sardegna dipendono più dalla sua capacità di interloquire con gli altri nodi della rete di quanto non siano invece collegati alla sua reale incidenza sulle politiche del governo italiano.

Ciò implica certamente un di più di poteri (rispetto a quelli tradizionali della delega autonomistica) ma anche un esercizio diverso dei poteri stessi, direi una grana diversa dei poteri, una loro maggiore capacità di incidere, di farsi valere. Perché il nostro tempo storico è caratterizzato da questa dicotomia: lo squilibrio tra poteri economici forti, anzi fortissimi, tendenzialmente privi di limiti, e poteri istituzionali deboli, debolissimi, tendenzialmente incapaci di far valere i limiti a tutela dell’interesse pubblico. E tutto ciò, tradotto in sardo, implica una nuova politica della Regione sarda, capace di “stare in rete”, di farsi valere nella rete: quindi di intessere alleanze, di inventare sinergie, di operare nel quadro di politiche concordate con altri soggetti, italiani e extra-italiani.
E quale cultura serve a questa nuova prospettiva? Quali modelli formativi per le nuove generazioni? In che misura dobbiamo metter mano ad una revisione delle categorie mentali, dei paradigmi culturali che sin qui ci hanno orientato e al tempo stesso condizionato?

Un partito come il Pd, la cui caratteristica fu, all’atto della fondazione, quella di concepirsi come partito del XXI secolo, ha al riguardo molte responsabilità. Ne cito una sola: deve capire che il rapporto politica-società ha smesso da un pezzo di essere quello che è stato nel secolo scorso (partito-avanguardia che sintetizza gli interessi del blocco sociale di riferimento; partito-guida che indica prima degli altri gli obiettivi da raggiungere; partito-organizzazione che innerva pezzi di società e li conduce per mano verso quegli obiettivi). Nella società attuale e ancor di più in quella che verrà, il partito politico è una centrale d’ascolto, le antenne tese verso l’universo sociale, a captare i movimenti e le dinamiche del cambiamento continuo.

E la politica, se ha una virtù, è quella di orientare le sue proposte sui risultati di quell’ascolto continuo, pronta a flessibilizzarle per rappresentarne ogni momento che passa i mutamenti. Partiti leggeri, dunque, non pesanti. Non burocratici. Immersi nella società, nel flusso ininterrotto dei movimenti. Partiti di cittadini più che di tesserati (anche di tesserati, ma solo in minima parte). Partiti continuamente disposti a mettersi in gioco.

Progetti culturali nuovi, forme inedite dell’organizzazione. Un’idea nuova di Sardegna. Sono obiettivi ambiziosi, che forse richiedono generazioni nuove alla politica, sgombre dai fantasmi del passato anche recente. Ma qui, su questo fronte, c’è il passaggio al Nord-Ovest di un rilancio, l’opportunità di una nuova stagione dell’impegno sulla questione sarda. Altrove, seguendo vecchie suggestioni e praticando antichi rituali, c’è solo il declino. Più o meno lento, ma inesorabile.

15/06/2011

 

 

Condividi su:

    Comments are closed.