Le dolcezze dell’autonomia regionale, le tavole dei sepolcri imbiancati e i conti negati al popolo interrogante. Una storia tutta sarda di 27 anni fa, con repliche infinite, di Gianfranco Murtas
Da ormai due o tre anni i consiglieri regionali di tutt’Italia, e di tutti i partiti destri e sinistri e centri, sono convocati dai giudici e richiesti, a turno, di giustificare le spese, all’apparenza improprie, dei fondi che la legge assegna ai gruppi a sostegno della iniziativa legislativa. Anche in Sardegna, anche i consiglieri sardi sono chiamati alla sbarra in significativa rappresentanza del plenum. Quelli delle ultime due legislature, o tre.
Per chi è nato, come me, nella culla ideale del regionalismo ed è cresciuto negli ardori sempre splendenti della democrazia asproniana e tuveriana, ed ha amato passione e integrità di uomini come Michele Saba, Luigi Oggiano, Pietro Mastino, Emilio Lussu, Giovanni Battista Melis, Mario Melis e quant’altri esponenti dell’autonomismo sardo di radice italiana, ogni rinvio a giudizio ed ogni processo, e quanto di più ogni condanna, a un legislatore del nostro range di autogoverno è motivo di lutto.
Non è spacconeria letteraria il testimoniarlo qui, è dolore autentico che si vede e si tocca. E che però non vuole rimanere sterile e, quanto meno, si fa oggi pubblico rievocando una piccola storia, la storia di una piccola battaglia perduta, rimontante agli anni 1988-1989: più di un quarto di secolo fa. Una storia capace di spiegare molto, a mio avviso. Dico delle omissioni che hanno poi generato il mostro.
Il succo è qui: un civis quidam non particolarmente intelligente, ma onesto e diligente sì, aveva intuito che attraverso i fondi erogati dal bilancio del Consiglio regionale della Sardegna ai diversi gruppi – un tot fisso ed eguale, un altro tot in rapporto agli iscritti al gruppo – si finanziasse non l’attività d’istituto, cioè quella legislativa, ma quella parallela e comunque estranea del partito di appartenenza. E neppure per la nobile politica in senso stretto, ma magari per sistemare le bollette elettriche della sezione, o gli attacchini dei manifesti convocati all’occasione. Causali sante, s’intende, confrontate con quanto sta ora venendo fuori dalle cronache del fantasioso assortimento di capriccio e ingordigia degli onorevoli che avevano perfino giurato la lealtà alla Repubblica costituzionale ed al bene unitario di Stato e Regione quando la loro elezione era stata convalidata.
Appena possibile, aprendo il dossier delle umiliazioni, racconterò nel dettaglio tutti i passaggi, anche gustosi, di quella battaglia promossa da Davide contro Golia. Di tanto ho comunque, oltreché copia della corrispondenza unidirezionale e le note di diario, anche un articolo-lettera che ora ho recuperato, pubblicato dal compianto Cesare Pirisi su “La Nuova Città” di Nuoro nel febbraio 1989. E valga dunque la data, evocante il compimento di quella legislatura che ebbe in sequenza tre giunte cosiddette progressiste.
Ne ripropongo qui alcuni passi, con un solo intento: di mostrare quanto potesse essere comprensibile da un cittadino qualsiasi l’anomalia dei comportamenti partitocratici (quelli che poi producono il qualunquismo e perfino il rigetto del sentimento democratico e partecipativo di certe aree della popolazione, ora espresso anche con la diserzione del voto), e di mostrare come il PCI del tempo, da cui viene adesso questa povera cosa che è il PD di Renzi e della Serracchiani, fosse un’apparenza – soltanto un’apparenza – di lealtà civica, e come esso, benché tradizionalmente all’opposizione (all’opposizione formale, per i comizi e il telegiornale, e comunque non in quella X legislatura), condividesse e praticasse la cattiva religione dell’elitarismo castale. Questa fu la corruzione mentale che prese tutti, sardisti e repubblicani, democristiani e liberali, socialisti (l’eroe del tempo era Lello Mereu) e destri monarchico-missini (c’erano ancora, i gloriosi, in quel tempo remoto), e comunisti non ancora PDS-DS in testa.
La lettera a “La Nuova Città”
«Caro Cesare, vorrei raccontarti, per flash, l’avventura d’un povero diavolo, che la Costituzione repubblicana chiama “cittadino”, il quale ha vanamente cercato un interlocutore nel presidente del Consiglio regionale e, in seconda battuta, nell’onorevole presidente, ohibò, della Commissione “diritti civili” (sì, proprio “diritti civili”).
«Il mio obiettivo – di cittadino quidam – era quello di conoscere i meccanismi del bilancio interno del Consiglio regionale, capire la logica e l’entità dei flussi finanziari a favore dei gruppi politici ivi presenti. In una parola: capire i modi del finanziamento “occulto o mascherato” dei partiti. Per il tramite, appunto, dei gruppi consiliari.
«Che ho fatto? Mi sono rivolto inizialmente – forte del mio status di cittadino della Repubblica italiana, di contribuente dello Stato, di elettore nella Circoscrizione sarda – ad un alto funzionario del Consiglio: ho chiesto copia del bilancio. Lui s’è scusato, ma ha dovuto rispondere di non potermi accontentare, atteso che la “prassi” (bada, la “prassi” non la legge) copre i conti del nostro massimo organo politico autonomistico col mantello d’una nobile riservatezza. “Si rivolga al presidente”, mi suggeriva il burocrate. Così ho fatto.
«Ho scritto al presidente Emanuele Sanna. Risposta? Nessuna, mai. Il cittadino, chi è costui? (La mia delusione – ti confesso – è stata ed è doppia. Anni fa i consiglieri regionali del mio partito, quello repubblicano, si astennero nella votazione per il presidente del Consiglio. Avevo contestato quella scelta di voto, sembrandomi che l’onorevole Sanna avesse le qualità morali e politiche per svolgere al meglio la delicata funzione. In un mondo politico di autentici “nani”, egli poi emergeva come un ”gigante inarrivabile”).
«Il presidente si comportava dunque come avrebbe fatto un qualsiasi democristiano. Non rispondeva, perché anche per lui il cittadino rappresentava un senza-voce.
«Ho poi incontrato, casualmente, la signora Linetta Serri, investita del mandato (anche col consenso del PRI?) di presidente della commissione “Riforma della Regione, Informazione e Diritti Civili”. Comunista rampante, dell’antica verace razza. Diciamolo al negativo, che è più soft: quella non-problematica.
«La Serri – alla mia delusione circa il comportamento omissivo del presidente del Consiglio comunista, che immaginavo tutto proiettato nelle geometrie morali della Regione “nuova” – controbatteva esibendosi nella teorizzazione di una nuova filosofia politico-costituzionale: quella per la quale esistono, in natura e dunque anche nell’ordinamento, due categorie umane, in ordine gerarchico fra di loro, che potrebbero indicarsi con le prime due lettere dell’alfabeto A e B. I primi sarebbero, nella Repubblica/Regione dell’ineffabile on. Serri, quelli muniti di tessera di partito, qualsiasi partito, s’intende, i secondi quelli sprovvisti di tale preziosissimo cartoncino, che peraltro costa poche lire: “Rivolgiti ai tuoi amici consiglieri regionali, loro il bilancio ce l’hanno”, rispondeva, altera ed alterata, la difensora dei “diritti civili” e anche, a pensarci bene, dell’”informazione”, sacerdotessa pure lei della ”Regione nuova” e riformata nella maggioranza dell’alternativa.
«Ho osservato allora ed osservo nuovamente adesso, interrogando te, caro Cesare: e se io non fossi titolare di alcuna tessera, e non contassi amicizie in Consiglio regionale, avrei forse meno diritto di un altro cittadino a conoscere gli oscuri meccanismi finanziari imperanti in Consiglio regionale dove – immagino – il bilancio è approvato all’unanimità? Impossibile soddisfare curiosità “civili”, che appunto per essere “civili” sono anche “invadenti e indiscrete”.
«Caro Cesare, ritieni che potrei essere querelato, magari per diffamazione, se scrivessi, e sottoscrivessi, che uffici importanti del massimo organo politico e legislativo della beneamata nostra Regione autonoma, e nuova Regione autonoma, sono popolati di farisei? Un abbraccio».
Il titolo che l’amico Pirisi dette al pezzo fu “Nani, giganti e farisei. Un episodio inverosimile”, con occhiello “Diritti civili”.
Un solo post scriptum, atteso che ho citato la Serracchiani “democratica”: sapevo fosse stata eletta alla presidenza della Regione autonoma del Friuli Venezia Giulia e dunque mi domando: ma perché non fa quel mestiere, per il quale è anche ben pagata, e sta sempre a Roma nella sede del PD e al telegiornale di ogni ora, di pranzo e di cena, a ripetere a memoria gli slogan concentrati del giorno? E perché quelli di forza nazionale e anche i fascisti permanenti della Meloni (che si chiamano addirittura come Goffredo Mameli: che stupida bestemmia!) non glielo chiedono loro alla Serracchiani di lavorare là dove la pagano? Temono che qualcuno chieda loro che cosa mai abbia prodotto per la patria, in quanto legislatore, l’on. Ghedini, in Parlamento dal 2001 ma assenteista medagliato e con un cumulo di indennità (accreditate nel quindicennio sul suo conto, con fuoriuscita da quello dello Stato) di qualcosa come due milioni di euro? Bisognerebbe che una santa legge imponesse a tutti gli stipendiati pubblici (iniziando dai rappresentanti del popolo) di rispondere alle domande. Cosa mai mi risponderebbero la Serracchiani e Ghedini e la Meloni e quelli di forza nazionale?
Una notazione finale, e magari anche una domanda, al mio amico Salvatore Cubeddu, che è un nazionalitario indipendentista. Se i nazionalitario-indipendentisti le energie migliori che hanno speso e ancora spendono per immaginare future architetture statuali della Sardegna le avessero invece investite prioritariamente sulla perfetta definizione delle “qualità” morali e civiche, dunque anche istituzionali e politiche, non prescindibili di una classe dirigente sarda? Fra un governo romano che blocca una cattiva legge approvata da un cattivo Consiglio regionale sardo e un cattivo Consiglio regionale sardo che approva cattive leggi (magari sui campi da golf), io preferisco sempre il primo, per quanto lontano. Galasso mi ha sempre ispirato più fiducia della Barracciu e di Massidda o Previti. E’ teoria, s’intende. La bagna avariata mi pare essersi diffusa senza confini e mai la Sardegna è stata Italia – la peggiore Italia – quanto oggi. Ma tutto nasce, mi sembra, da quelle lontane omissioni all’apparenza non degne di rilievo o di rampogna. Li avrei voluti al mio fianco i nazionalitario-indipendentisti , vent’anni dopo la svolta di Simon Mossa, quasi dieci anni dopo il congresso di Porto Torres, a chiedere conto al presidente dell’Assemblea legislativa e al presidente della Commissione diritti civili e anche informazione. Attività certo meno pretenziosa di quella delle costruzioni costituzionali, ma anche pedagogicamente – dico della necessaria pedagogia civile – forse più fruttuosa…